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8 Film di cui non saprai di aver bisogno fino a quando non li guarderai

Film da vedere ce ne sono sempre tanti, ma ce ne sono alcuni di cui, a volte, abbiamo tremendamente bisogno. Dove sei, tenerezza umana? Forse solo nei libri? Scriveva Izet Sarajlić Izet Sarajlić, poeta e filosofo bosniaco. A questa domanda aggiungerei anche un’altra possibilità, ricordando quanta tenerezza sussista all’interno delle pellicole cinematografiche. Una macchina da presa è tutto quello che serve per scrivere una storia fatta di carezze, anche se all’interno contiene degli schiaffi. Questa è forse la magia del cinema: quando vuole, riesce a rendere delicato anche quello che non lo è. Per riuscire in questa impresa bisogna collegare con maestria diversi tasselli, donando al film la possibilità di sviscerare l’introspezione, la fragilità e le debolezze dei personaggi creando, a tutti gli effetti, una poesia cinematografica. Stiamo parlando di pellicole che, una volta conosciute, diventano qualcosa di essenziale, qualcosa di cui si aveva bisogno ma di cui non si era a conoscenza. Sono pellicole capaci di guardarti dentro attraverso l’occhio di una macchina da presa che stringe su dei volti che ci rappresentano, e che sono ben coscienti di farlo. Non sono storie singole, ma collettive, rappresentative. Sono 120 minuti (minuto più, minuto meno) di fantasie capaci di sviscerare qualcosa che avevi bisogno di incontrare, e di cui non potrai più fare a meno.

Da Mommy a Lost In Translation: 8 film da vedere assolutamente di cui non saprai di aver bisogno fin quando non li guarderai

Mommy, il primo film da vedere di questa lista

Iniziamo questo viaggio all’interno del cinema con Mommy, uno dei film da vedere più importanti del regista canadese Xavier Dolan.

Dolan tornerà in questa lista con un’altra sua opera, proprio perché il suo modo di raccontare le storie sta alla delicatezza come il cioccolato sta sulle torte. Ne abbiamo parlato anche qui, Mommy è uno dei film più personali che Dolan abbia mai scritto, uno di quelli che non puoi ignorare una volta che ti capita di fronte. Fino a quando non lo conosci vivacchi e non ci pensi, ma quando vieni a tu per tu con la prima scena comprendi a pieno cosa mancava alla tua collezione cinematografica. La pellicola è stata girata con un’inquadratura estremamente stretta (1:11) con l’obiettivo di lasciare spazio soltanto a una persona per volta, riuscendo così a cogliere tutto quanto il necessario. Per riuscire a far spazio a due persone i protagonisti devono stringersi riuscendo nella dura operazione di guardarsi negli occhi, anche quando non vorrebbero mai farlo. Ma a questa regola esiste un’eccezione, una serie di momenti in cui l’inquadratura si allarga con un obiettivo ben preciso: riuscire a trasferire nel concreto il concetto di libertà temporanea che stanno vivendo i personaggi. Ognuno di loro vive infatti all’interno di una gabbia che lascia poco spazio a questo tipo di concezione, soprattutto a causa della pesantezza di quel che sono. Non conoscono vie di uscita, e i rapporti che intrattengono tra di loro sono spesso un altro esempio di prigione, di dovere. Il legame tra madre e figlio si impone dunque come un dovere a cui questa non può sfuggire, un concetto apparentemente crudo che in realtà darà vita a un rapporto onesto composto da due persone che necessitano dell’altro. Soltanto conoscendosi a vicenda i due riusciranno a trovare una chiave capace di metterli a nudo per quel che realmente sono, portandoli a compiere scelte complesse di cui non pensavano di essere capaci. Mommy è per questo un film necessario, uno di quelli che rimarrà impresso nella mente di chi lo guarderà. E’ una pellicola che analizza un rapporto naturale, spiegando con lucidità e delicatezza alcuni degli aspetti più intricati e complessi dell’essere umano.

Lost in Translation, un film da vedere che è un cult assoluto

Nessuno, guardando la sceneggiatura composta da poco meno di dieci pagine, avrebbe mai pensato all’immensità che un film come Lost in Translation avrebbe messo in piedi.

Sofia Coppola, però, è riuscita a stupire chiunque, perfino gli attori che non credevano troppo nella riuscita del successo di un film del genere. Perché Lost in Translation è un film fatto di sguardi, silenzi e stanze vuote. Questo aspetto si rivela essere subito paradossale, dato che l’ambientazione scelta per il film vede come protagonista una Tokyo caotica esattamente come la conosciamo. Ma lo smarrimento dei due protagonisti è così tale da zittirla e rimpicciolirla, privandola di quell’aspetto mastodontico che ha sempre detenuto. Perché, spiega Lost in Translation, le città sono fatte di persone, e gli occhi con cui abbiamo vissuto il viaggio in Giappone sono degli occhi smarriti, completamente inermi e disillusi. La loro vita procede collezionando più dubbi che risposte, e il loro essersi trovati è stato necessario. Non ha dato le risposte alle domande, ma ha fatto porre i quesiti giusti. A volte la chiave non sono le risposte, ma il tipo di domanda che ci facciamo. Lost in Translation riesce a entrare sia nella definizione di cinema più ricercato, che il contrario. Questo perché sono pochi quelli che hanno davvero dato una possibilità a questa sequenza di silenzi, ma al tempo stesso perché chi l’ha fatto è riuscito a rendere giustizia a quel che ha visto, facendo poi molto rumore.

Lost in Translation è un film necessario, la chiave per dare una definizione al nostro sentirci persi. Si pone l’obiettivo di spiegare che non conta soltanto quel che è immenso o duraturo nel tempo, ma anche quel che all’apparenza dura il momento di una canzone, e poi si disperde. Racconta anche che, se due persone si conoscono ma tra loro non succede concretamente nulla, non vuol dire che non sia in realtà successo tutto.

E questo è qualcosa che non possiamo permetterci di dimenticare.

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