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True Detective non è solo una serie crime. È la fotografia di una società

Alcuni critici sostengono che True Detective sia la “True Heir” di Twin Peaks. Altri direbbero che True Detective si è fermata alla prima stagione (e magari si è ricreduto nel corso di quest’ultima). Qualcun altro ha obiettato che se non ci fosse stata proprio quella prima stagione, la seconda avrebbe potuto essere la nuova The Wire. In qualunque modo si voglia inquadrare la serie antologica di Nic Pizzolatto, una cosa è certa:

True Detective è prima di tutto la fotografia di una realtà

Tra le drammatiche trame di riti occulti, bambini scomparsi e prostitute uccise, si nasconde l’immagine di qualcosa che va ben oltre il tragico fato di queste vittime. Ed è un’immagine i cui bordi delineano una società: quella degli Stati Uniti del sud. E dal gotico-bucolico sottosuolo di queste terre emergono fumi impregnati di razzismo e abusi di potere che danno molto a cui pensare. Questi, se non altro, sono gli elementi su cui si focalizza la serie.

True Detective

L’atmosfera cupa e suggestiva di questo contesto sociale definisce True Detective più di ogni altra cosa.

È “l’universo” raccontato da True Detective nella prima e nella terza stagione (che si rivela essere comune a detta dello stesso Pizzolatto) ciò che rende entrambe forse le più significative della serie HBO. E non è un caso che i contesti sociali che fanno da sfondo alle vicende narrate vengano raccontati così finemente da un uomo, Nic Pizzolatto, nato e cresciuto a New Orleans, Louisiana. Già la prima stagione ci aveva aperto le porte di un universo sociale fatto di invasive credenze religiose e arretratezza. Ma la terza ci prende per mano e ci accompagna al suo interno senza sconti. E ciò che vediamo è davvero triste quanto degradante.

La terza stagione di True Detective ci porta in Arkansas, Stato centro-meridionale degli Stati Uniti.

True Detective

E tra le immense distese d’erba secca e di boschi inquietanti, sentiamo l’eco di una pesante eredità che la società di quelle zone si porta dietro dal passato.
Una società bigotta, che vive di pregiudizi e vecchie credenze. La stessa società che nel 1993 condannò ingiustamente tre adolescenti sulla base delle loro “stranezze”. La terza stagione di True Detective cita infatti il caso dei “Tre di West Memphis”, un caso giudiziario di grande risonanza mediatica. Gli adolescenti interrogati a inizio stagione da Hays e West “omaggiano” quanto accaduto a Damien Echols, Jesse Misskelley e Charles Baldwin venticinque anni fa. Furono accusati sulla base di prove inesistenti dell’omicidio di tre bambini di otto anni di West Memphis. Il giudice li scagiona definitivamente nel 2011, dopo quasi vent’anni trascorsi in carcere ingiustamente.

Peter Jackson nel 2012 ne ha tratto un documentario (West of Memphis) che racconta non solo i dettagli del caso, ma il tessuto sociale in cui affondano le radici delle accuse mosse. Un tessuto sociale molto simile a quello raccontato da True Detective.

True Detective

In cui la gente giudica le persone per il taglio di capelli, per la musica che ascolta, per quello che indossa. Basti pensare alla scena in cui Roland chiede spiegazioni sulla maglietta dei Black Sabbath a uno degli adolescenti interrogati a scuola. Una società in cui una persona attiva in parrocchia dev’essere necessariamente innocua e di buon cuore. In cui “cattolico e credente” significa “buono”, ateo e appassionato di metal, “cattivo”. Una società razzista, in cui il razzismo diventa addirittura un “normalissimo” modo di essere e pensare. È proprio quella normalità che ci fa accapponare la pelle. Come quella che traspare dalle parole dell’anziana parrocchiana che fabbrica bambole (“Era un uomo come lui – come Hays – sa, un negro”). O quella che emerge dal dialogo tra Amelia e il proprietario del bar in cui Lucy lavorava. Questi ammette con nonchalance come Lucy si accompagnasse a molti uomini, ma che sicuramente mai si sarebbe accompagnata a un nero.

Questa stagione di True Detective, molto più delle prime due, ci dà un’idea abbastanza chiara di cosa dovesse significare vivere in alcune zone degli Stati Uniti del sud fino a qualche anno fa.

True Detective

Cosa dovesse significare far parte di una qualunque minoranza in un paesino bigotto, falsamente religioso e figlio di una cultura dell’odio tutt’oggi molto più diffusa che in altri Stati a stelle e strisce. Che fossi un nero, con o senza distintivo, un omosessuale, nascosto o dichiarato (come Tom Purcell) o un adolescente appassionato di heavy metal, con o senza inclinazioni sataniste, poco importa. Se non sei un regolare bianco, etero, cattolico, propenso alla famiglia, allora qualcosa in te non va. E la prima stagione di True Detective ci ricorda infatti che in tale universo tradimenti coniugali, alcolismo, violenza e abusi di potere non siano colpe gravi quanto le differenze genetiche o sociali.

True Detective ha creato un universo in cui storie slegate tra loro si sviluppano sullo stesso sfondo, fatto di formae mentis difficili da sradicare.

Gruppi di pedofili potenti, corruzione nelle alte sfere e la più che reale centrale nucleare di Russelville, simbolo del lavoro spersonalizzante e sottopagato. True Detective è una mescolanza di realtà e finzione che lascia ampio spazio a numerose riflessioni. I fatti raccontati si ispirano liberamente ad avvenimenti reali da un lato, mostrando dall’altro le possibili implicazioni e la deriva (più che potenziale) di un contesto sociale da brividi. I fatti raccontati si collocano temporalmente tra gli anni ’80 e ’90 e sicuramente l’approccio di allora doveva essere alquanto più duro di quello odierno. Tuttavia notizie di cronaca inerenti i crimini d’odio piovono a fiotti da quelle terre. Innumerevoli statistiche mostrano come gli Stati americani del sud siano la culla del neonazismo contemporaneo, pullulante di attivisti razzisti, anti-semiti e anti-LGBT.

True Detective
Potremmo chiederci allora quanto di quella cultura sia stata davvero superata oggigiorno. E volendoci porre domande più vicine alla linea temporale di True Detective resterebbe ancora da domandarsi: davvero quella società, nel paese delle libertà, era così fino a pochi decenni fa?
Forse Nic Pizzolatto non intendeva necessariamente spingere lo spettatore a porsi tali domande. Ma quel che è certo è che la sua scrittura voleva trasmettere un messaggio tra le righe. E quel messaggio punta a smascherare tutta l’ipocrisia e l’arretratezza di certi sistemi di pensiero. True Detective riesce a mostrare l’insensatezza del bigottismo religioso, del razzismo e di tutto ciò che ha fatto marcire quella società, superando brillantemente l’ostacolo della banalità.

La velata condanna di Pizzolatto si veste in modo variegato.

In questo universo tutti commettono errori: Hays, West, Hart, Cohle. A dimostrazione di quanto gli errori non dipendano dal colore della pelle, ma da qualcosa che ha a che fare con ben altro a seconda dei casi.

E True Detective lo dimostra con l’eleganza di una storia maestosamente scritta, che ci porta al suo interno facendoci sentire quasi parte di quell’universo così lontano.

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