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Cobra Kai ci insegna che la storia ha sempre due facce

Cobra Kai è da pochissimo disponibile su Netflix nella sua interezza. Serie in due stagioni (in programma la terza) creata per YouTube Premium nel 2018, si presenta come un sequel del celebre The Karate Kid, il film che ha caratterizzato l’infanzia di molti ragazzi anni ’80, e ha già fatto record di ascolti. Ma com’è Cobra Kai, merita la nostra attenzione? Proviamo a scoprirlo.

La vita un tempo doveva essere molto più facile, almeno nel cinema pop. C’erano i buoni da un lato, i cattivi dall’altro. Nel mezzo un bel niente. Di solito, poi, i buoni erano gli outsider, gli emarginati che riuscivano a rilanciarsi e ad avere la meglio, immancabilmente, sugli altri. Una bella manciata di buone intenzioni e insegnamenti edificanti e il gioco era fatto. Così era anche Karate Kid, con il saggio maestro Miyagi a far da guida morale del giovane emaciato Daniel (e a tutti noi). Poi le cose sono cambiate.

Il mondo è cambiato.

E quella dicotomia tra bene e male non ha più potuto rappresentare convintamente il nostro tempo. Servivano figure più reali, tridimensionali. Perché la verità è che le cose sono più complesse, dannatamente più complesse di una lotta manicheista. E così si sono fatti largo gli antieroi, con i loro errori, drammi, brutture. Con il fascino dell’anticonvenzionalità e con le complesse psicologie.

Cobra Kai

In questo solco si colloca Cobra Kai e il suo inaspettato protagonista, quel Johnny Lawrence umiliato da Daniel LaRusso nel finale di Karate Kid. La storia è scritta dai vincitori e così, a distanza di decenni, Daniel è l’uomo ammirato e rispettato, mentre Johnny l’escluso, il reietto fallito che si barcamena tra piccoli lavori domestici.

Il grande merito di Cobra Kai è metterci di fronte a una visione alternativa delle cose, restituendoci una prospettiva che non avevamo preso in considerazione. La prospettiva che la storia non tiene mai da conto: quella del vinto. Dal punto di vista di Johnny il “cattivo” è Daniel, comparso dal nulla, pronto a sfilargli la ragazza e a umiliarlo al torneo di karate con un colpo proibito che avrebbe meritato la sanzione.

Ora Daniel ha rinnegato il karate.

È un benestante proprietario di concessionarie e sfrutta il successo della sua infanzia per attrarre clienti. È uno yuppie capitalista con una bella casa, una bella macchina, una bella moglie. Ha tutto. Johnny può solo guardarlo dal basso della sua vita allo sfacelo di un fallimento esistenziale che lo accompagna ogni giorno e che cerca di annegare nell’alcol.

Johnny

Non è cambiato molto: è impulsivo, aggressivo, scorretto ed è stato incapace di crescere una famiglia, di prendersi cura di chiunque, soprattutto di se stesso. Eppure, Johnny è una figura incredibilmente intrigante. Ne scopriamo l’infanzia, le difficoltà che lo hanno portato a sbagliare, il bisogno di mostrarsi forte nascondendo le insicurezze e i vuoti affettivi dietro l’idea di “Colpire per primo, colpire forte, senza pietà”. Il Cobra Kai aveva rappresentato per lui un rifugio, un luogo per tirare fuori la propria rabbia e convertirla in sicurezza e forza.

Ma a causa di un cattivo maestro, l’occasione per acquisire sicurezza in sé era diventata vuoto machismo, tronfia volontà di sopraffare l’altro, di imporsi sopra chiunque. Sarà lo stesso rischio nel quale incorreranno i suoi allievi, e lui con loro, ora che ha deciso di riaprire il Cobra Kai. Tutti in costante equilibrio tra crescita personale e aggressività prevaricante. Un equilibrio precario che, come si vedrà, rischia di crollare da un momento all’altro.

Cobra Kai è un racconto tutt’altro che banale.

La figura di Johnny è tratteggiata con cura e buona attenzione psicologica. Il personaggio che ne viene fuori è credibile, accattivante e sfaccettato. Non c’è una visione predominante: i Cobra Kai non sono migliori del Miyagi-Do Karate (la scuola che LaRusso decide di rifondare per contrastare il “nemico”) ma neanche peggiori. Di fronte ci sono due diversi modi di intendere il karate e la vita. L’uno più aggressivo, l’altro più attendista. Ognuno con i suoi pro e i suoi contro, con qualità e debolezze.

Cobra Kai

Cobra Kai diventa così non solo il racconto del riscatto di Johnny Lawrence, della sua seconda vita, dell’opportunità di comprendere i suoi errori e migliorarsi, ma anche una storia formativa che coinvolge i giovani di un’intera scuola. Sarà su di loro che si imprimeranno due modi antitetici di stare al mondo, con tutti i rischi del caso. Attratti dalla forza, dall’idea della sopraffazione, il compito di Johnny sarà quello di guidarli verso un’idea nuova di karate.

La responsabilità dell’educazione finirà per fargli rivedere il suo credo, quel dogma autoritario scritto a nere lettere su di un muro bianco: Strike first, strike hard, no mercy. Perché “la vita non è in bianco e nero. Il più delle volte è grigia, ed è proprio in quelle aree grigie che il Cobra Kai mostra pietà“. È questo il grande merito della novità Netflix: mostrarci come il mondo non è mai tutto bianco o tutto nero ma costellato di punti di vista, di interpretazioni soggettive, di relativismo.

Cobra Kai non è una serie perfetta, anzi.

In molti tratti si perde in una sceneggiatura accademica, in tematiche troppo teen, in inutili ghirigori di trama fino a sprofondare in un gusto trash che trova il suo culmine nella resa assolutamente ridicola del finale di seconda stagione. Eppure merita comunque una possibilità. Riesce nonostante tutto a lasciarci qualcosa e a farci riflettere, perfino emozionare. Ribalta le nostre convinzioni, ci insegna a guardare alle cose in modo diverso. A non accettare che la storia sia scritta dai vincitori ma a comprendere che bene e male, molto spesso, sono solo due concetti troppo assoluti per adattarsi all’uomo. Per adattarsi a noi.

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