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Come Brooklyn Nine-Nine ha abbattuto e riscritto (in meglio) le leggi del politically correct

Se chiedeste ai fan delle serie tv qual é la più grande minaccia alla serialità contemporanea, è probabile che una buona percentuale dei rispondenti direbbe che non c’è nulla di peggio che la – presunta – onnipresenza del politicamente corretto. Tuttavia, quando si parla di politically correct nei film e nelle serie tv, occorre fare un passo indietro e guardare alla questione con occhio critico, senza dimenticare il ruolo fondamentale della televisione nella costruzione sociale della realtà all’interno della società odierna. Quello televisivo è infatti uno spazio in cui vengono rappresentate storie fittizie, che ci permettono di evadere dai confini alle volte opprimenti della realtà che ci circonda, ma è anche un luogo che non è totalmente slegato dal mondo reale. Ciò che vediamo sul piccolo schermo ha inevitabilmente una sua influenza sui modi in cui gli spettatori interpretano la loro vita di tutti i giorni e pertanto non si può liquidare la questione della rappresentazione televisiva sostenendo che sia un’imposizione senza senso, del tutto senza conseguenze sulla realtà quotidiana in cui viviamo. Ecco allora che il politicamente corretto non si può ignorare, non si può nemmeno ridimensionare e considerare solamente una moda passeggera che i vertici del mondo seriale sfruttano per attirare pubblico – sebbene sicuramente vi sia una parte di verità in quest’ultima affermazione. Occorre contestualizzare il politically correct e comprendere perché è profondamente necessario che la televisione impari a farne l’uso migliore possibile. E non esiste esempio più calzante di come si debbano riscrivere le regole del politicamente corretto di Brooklyn Nine-Nine, la commedia più popolare tra quelle attualmente in onda.

Che cos’è davvero il politically correct? Ce lo spiega Brooklyn Nine-Nine

brooklyn nine-nine

Atteggiamento di apertura e attenzione verso i problemi delle minoranze e di quelle categorie che non hanno spazî adeguati d’espressione nella società.

Dal vocabolario Treccani

La definizione di politically correct nel suo significato più generico è probabilmente condivisibile da quasi chiunque, compresi tanti di coloro che arrivano ad attaccare la deriva della serialità contemporanea in quella che qualcuno ha definito in modo provocatorio la “dittatura del politicamente corretto”. Ne deriva che debba esserci uno scollamento tra l’intenzione dei produttori – dare attenzione e spazio di espressione alle minoranze – e la realizzazione effettiva dell’opera, tanto profondo da far sì che anche un presupposto moralmente inattaccabile diventi oggetto di critiche feroci. Il problema è allora evidente: nell’aderire agli schemi del politically correct, la maggior parte delle serie è caratterizzata da una superficialità appariscente, tale per cui la questione della rappresentazione delle minoranze è talmente poco organica e snaturata da rendere l’intero prodotto intriso di un moralismo tanto facile quanto poco sincero.

Ecco allora che, da spettatori, occorre chiedersi se il problema non sia tanto il politicamente corretto in sé quanto piuttosto l’interpretazione superficiale che di questo fanno i prodotti seriali contemporanei. E Brooklyn Nine-Nine è la risposta a questa domanda fondamentale: il punto non è se aderire o meno agli schemi del politically correct, ma come farlo.

Pensiamo alla prima e più evidente questione quando si parla di rappresentazione delle minoranze, un tema profondamente connesso al politically correct: l’inclusività del cast. Ormai è difficilissimo trovare una serie televisiva statunitense che non abbia tra i suoi protagonisti almeno un personaggio appartenente a una minoranza etnica e almeno uno che sia membro della comunità LGBTQ+. Il che non è affatto un problema, anzi, è un passo avanti importante nella rappresentazione di una realtà più inclusiva, che può favorire il diffondersi di sentimenti di apertura all’interno di un pubblico sempre più vasto. Tuttavia, molte serie tv sembrano convinte che per pagare la quota di “rappresentatività” sia sufficiente introdurre personaggi appartenenti a minoranze, senza nemmeno preoccuparsi di fornire loro una personalità, un contesto, addirittura una storyline. Ci troviamo davanti a decine di personaggi queer il cui unico tratto distintivo è essere parte del movimento LGBTQ+, o personaggi afroamericani che non hanno una funzione nella trama, appaiono semplicemente. Lo spettatore allora inizia a trovare la questione del politicamente corretto come inorganica, tale da snaturare il senso delle serie: minuti preziosi degli episodi vengono dedicati a personaggi che nessuno si prende la briga di sviluppare, tematiche fondamentali legate alle minoranze vengono forzate all’interno della trama dall’alto, usando toni moraleggianti che difficilmente il pubblico può apprezzare.

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Brooklyn Nine-Nine invece è fin dal principio una serie che non gioca la carta dell’inclusività soltanto per attirare pubblico, una serie inclusiva fino al midollo, politicamente corretta già dal cast. Pensiamo al personaggio del capitano Raymond Holt: uomo nero e omosessuale la cui vita e, soprattutto, carriera sono state influenzate duramente proprio dalla sua identità. Ma Holt è soprattutto un personaggio complesso, originale, la cui presenza nella serie non è limitata al colore della sua pelle o al suo orientamento sessuale, bensì è legata alla sua evoluzione come individuo e come leader nel novantanovesimo distretto. Lo stesso si può dire di Rosa, la cui bisessualità e al centro di alcune delle puntate più riuscite di Brooklyn Nine-Nine, ma di cui di certo nessuno potrebbe mai ridurre la presenza nella serie a semplice soddisfazione di una quota di rappresentazione. E che dire di Terry? Il suo essere un poliziotto nero è il cuore pulsante dell’episodio forse più riuscito dell’intera serie (Moo Moo, di cui vi abbiamo parlato qui), ma la sua evoluzione come personaggio avviene secondo direzioni molteplici, che vanno a esplorare tutta la sua personalità e non solo la sua appartenenza etnica.

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Dunque Brooklyn Nine-Nine non nega mai l’importanza dell’appartenenza dei suoi personaggi a minoranze di diverso tipo e anzi spesso vi dedica storyline tra le migliori dell’intera serie, ma non riduce mai l’intera esperienza e la personalità degli stessi semplicemente al loro essere neri, ispanici, queer. La comedy di Dan Goor e Mike Schur dipinge i membri delle minoranze come persone, qualcosa che sembrerebbe scontato e invece non lo è, proprio perché molte altre serie televisive non si sono mai sforzate di compiere questo passo.

Politicamente corretto non vuol dire porre limiti alla comicità

Arriviamo ora alla seconda critica che viene spesso mossa nei confronti del politicamente corretto, ossia che per colpa sua “non si può più ridere di nulla”. Ancora una volta Brooklyn Nine-Nine ci dimostra quanto questa affermazione sia falsa e che politically correct non sia sinonimo di noia.

Non è vero che nell’era del politicamente corretto non si può più ridere di nulla, come spesso sembrano contestare coloro che parlano di “dittatura”. Il politically correct vuole dare voce alle minoranze e mostrarne una rappresentazione adeguata, il che rende fondamentale il ruolo del contesto. Si può ridere di tutto e fare ironia su qualsiasi cosa, purché venga fornita la cornice adeguata per comprendere le battute, purché la chiave di lettura sia quella che garantisce la tutela delle minoranze.

Quindi occorre fare una distinzione tra serie politicamente corretta e personaggi politicamente corretti: vi sono molte serie che di fatto obbediscono a quelli che idealmente dovrebbero essere i canoni del politicamente corretto (come The Office), ma che hanno tra i loro protagonisti individui che di certo non aderiscono agli stessi standard (lo stesso Michael Scott, per rimanere nell’universo The Office). Nel caso di Brooklyn Nine-Nine in realtà non solo la serie, ma anche quasi tutti i personaggi sono sufficientemente politically correct, eppure nessuno si lamenta che questo sia un limite per la comedy, che ci ha fatto letteralmente impazzire dal ridere in molteplici occasioni (come queste). Infatti la serie sui poliziotti del novantanovesimo, sempre attenta alla tutela e alla rappresentazione di categorie sociali che si trovano in posizioni subalterne per diverse ragioni, è indiscutibilmente brillante nella sua comicità, tanto che per molti è l’ultima grande erede delle comedy classiche come Friends, The Big Bang Theory o The Office. Eppure, per quanto non si possa negare il suo legame con queste pietre miliari della televisione, Brooklyn Nine-Nine è anche profondamente nuova nel suo approccio alla comicità, che non vuole deridere ma piuttosto fare satira. Una novità seriale che speriamo possa avere un impatto concreto sulla commedia del futuro. Insomma, vogliamo essere fiduciosi che sarà in grado, proprio come la capostipite Brooklyn Nine-Nine, di far ridere in un modo che sia inclusivo e felice per tutti.

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