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Non arrendiamoci all’idea di un mondo privato della fantasia umana

Una nuova sit-com statunitense ha fatto parlare parecchio di sé negli ultimi mesi. Prima per quello che è, una serie che intende rigenerarsi e andare in onda all’infinito manco fosse la peggiore delle soap opera, poi per quello che è diventata. Infine, per le polemiche che ha generato dopo una battuta ritenuta offensiva dal pubblico. Per questo, Nothing, Forever, parodia di Seinfeld, era stata costretta a fermarsi per un mese circa, prima di tornare in onda nello scorso marzo. Ma perché ha incuriosito tanto? È davvero così innovativa? Di per sé no, non è niente di speciale. Ma abbiamo fin qui tralasciato il dettaglio decisivo: è creata in tutto e per tutto da un’intelligenza artificiale.

Trasmessa ininterrottamente su un canale Twitch in cui ha raggiunto picchi di migliaia di utenti collegati in contemporanea, nessuno la scrive, nessuno la interpreta, nessuno la gira da nessuna parte: è figlia di un algoritmo, e di una riproduzione automatica che crea situazioni, personaggi e intrecci in loop. Risultato? Non è niente male. Certo, non è Seinfeld e progressivamente sembra essere sempre meno Seinfeld e sempre più un accrocchio di elementi tratti dalle migliori sit-com degli anni Ottanta e Novanta, ma funziona piuttosto bene. È abbastanza divertente e coinvolgente, abbastanza intelligente e abbastanza brillante nella gestione dei momenti chiave. Abbastanza, sì. Ma non troppo: ripetiamo, Seinfeld era altro. Sarà sempre altro. E la domanda che ci facciamo è solo una, al di là di ogni possibile pregiudizio da mettere da parte a proposito di una forma espressiva del genere: è davvero questo il nostro futuro? Un futuro in cui delegare alle macchine anche la creatività e la fantasia?

intelligenza artificiale

La questione è complessa, parecchio. Ce ne siamo accorti negli ultimi tempi, specialmente da quando si è iniziato a parlare – spessissimo a sproposito – di intelligenza artificiale, anche in relazione alla produzione di serie tv e film.

Uno dei punti cruciali del mastodontico sciopero degli sceneggiatori e degli attori di Hollywood attualmente in corso, d’altronde, coinvolge proprio l’utilizzo dell’IA a supporto (o in sostituzione) di autori e vari membri del cast: si teme, infatti, che il progressivo inserimento delle nuove tecnologie possano portare problemi giganteschi all’interno dell’industria cinematografica, sminuendo il lavoro di migliaia di persone o arrivando addirittura a eliminarlo del tutto in nome di modalità più vantaggiose sul piano economico. Come se ne uscirà? Con ogni probabilità, non se ne uscirà. Con tutto il rispetto per chiunque stia portando avanti delle istanze più o meno legittime o in qualche modo condivisibili, questa è una battaglia persa in partenza: qui si parla di Don Chisciotte che combatte contro i mulini a vento, e di una guerra contro il futuro di cui è già evidente l’esito. Basta farsi una domanda semplicissima, per capirlo: perché un produttore dovrebbe pagare una persona in carne e ossa per fare qualcosa che potrebbe fare una macchina con costi nettamente inferiori, garantendo allo stesso tempo risultati molto simili con molti meno vincoli?

Purtroppo, non è nemmeno necessario rispondere. E diciamo purtroppo perché lo scenario che si profila non è entusiasmante. Non perché se ne voglia fare una questione idealistica né si voglia alimentare in alcun modo gli spauracchi spesso ridicoli che intendono demonizzare lo sviluppo dell’intelligenza artificiale, affatto. Ma perché deprime non poco l’idea di futuro che si sta definendo giorno dopo giorno in questo senso: un mondo in cui i programmatori hanno ormai preso il posto dei creativi, e in cui la fantasia umana ha ceduto il passo a fonti d’intrattenimento che di fantasioso hanno ben poco. Per colpa delle macchine? No: le macchine rappresentano una conseguenza, non certo una causa. E il problema si era già posto sia in televisione che al cinema ben prima che si iniziasse a parlare di intelligenza artificiale: la ricerca di una garanzia sul profitto connesso a un investimento importante ha infatti portato, nel tempo, a un progressivo appiattimento globale di film e serie tv, sempre più ancorati a vecchie certezze, franchise ormai logori e un’infinità di operazioni nostalgia che in gran parte dei casi non hanno niente né da esprimere né da raccontare. E quindi che differenza c’è tra un autore che si ritrova a scrivere sempre le stesse cose e un algoritmo che rielabora dei dati per tirar fuori qualcosa che sembra nuovo ma nuovo non è davvero? Che differenza c’è tra la simulazione digitale di un’interpretazione attoriale e la prestazione di un attore confinato in ruoli statici, incapaci di valorizzare il suo talento?

Vogliamo provocarvi: le differenza non sono poi così tante. E vogliamo pure esagerare: ma non è che l’intelligenza artificiale potrebbe avere qualcosa di intrigante da proporre anche sul piano creativo?

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Qua ci sentiamo di mettere un argine: uno bravo, infatti, metterebbe in discussione la definizione stessa di “intelligenza artificiale”, definizione che presupporre un’autonomia di pensiero e azione che a oggi gli algoritmi sembrano esser ben distanti dal possedere, in favore di una più generica associazione al campo del “machine learning”. In sostanza, l’algoritmo rielabora dei dati, li scompone e li ricompone, ma non tira fuori niente di davvero nuovo. E oltretutto pare stia apprendendo le sue lezioni e acquisendo la sua esperienza da pessimi insegnanti, diventando così sempre più “stupida”. In definitiva: se l’uomo non inserisce dei dati “intelligenti”, l’algoritmo darà vita sempre più a una qualche forma di “idiozia artificiale”. Ma non divaghiamo oltre: servirebbe uno bravo per affrontare un tema come questo, e chi vi sta scrivendo bravo non è. Lo spunto, però, è funzionale alla risposta che ricerchiamo: in virtù di ciò, infatti diviene evidente che un algoritmo non abbia al momento la possibilità di essere più creativa di una qualunque mente umana. Può tirar fuori qualcosa di interessante? Assolutamente sì. Un libro che leggereste volentieri? Perché no. Una serie da guardare a tempo perso? Un film con cui trascorrere alcune ore di volo? Non lo mettiamo in dubbio: come dicevamo all’inizio, la parodia artificiale di Seinfeld rappresenta di per sé un prodotto valido. Con mille problemi, ma comunque valido. Persino competitivo, nel mercato televisivo odierno. E questo sta succedendo ora, non tra dieci anni: in prospettiva, quindi, è evidente che le possibilità per rimpiazzare autori e attori in modo soddisfacente ci siano tutte.

Come andrà a finire? Andrà a finire che le major si appoggeranno sempre più a tecnologie del genere e standardizzeranno sempre di più le produzioni. Mentre la creatività umana, l’artigianato sul quale si fonda la dimensione artistica di televisione e cinema, verrà relegata all’avanguardia di chi vorrà ancora osare per emergere attraverso distribuzioni di secondo o terzo piano. Non sarà sempre così e i grandi nomi continueranno ad avere spazio anche all’interno dei palcoscenici più prestigiosi con budget all’altezza delle potenzialità espressive, ma estremizziamo per evidenziare quella che diverrà la tendenza dominante. E al pubblico cosa resterà? Resterà la possibilità di scegliere, con la giusta lucidità nel leggere i quadri in evoluzione: sorbirsi la rielaborazione di una storia già raccontata trent’anni prima, col presupposto che le note saranno sempre sette e lo spazio per creare qualcosa di davvero innovativo sarà sempre più ridotto, oppure dare un’opportunità alle produzioni più indie, underground. Quello che diverrà il substrato dell’industria dell’intrattenimento, composto banalmente da persone in carne e ossa con pensieri veri, emozioni reali e una sensibilità che una macchina, a prescindere da quanto sarà raffinata, non potrà mai avere.

In definitiva, dobbiamo arrenderci: il futuro è e sarà questo, che lo vogliamo o meno. Ma non dobbiamo arrenderci all’idea di non ricercare più e sostenere lo spunto creativo, un moto fantasioso, una visione alternativa delle cose. Costruire, senza fossilizzarci all’interno di ricostruzioni che ci spengono, ci appiattiscono, ci omologano. Ricerchiamo l’arricchimento, il confronto, una via in cui osare ed essere, semplicemente, degli esseri umani. Non divenire a nostra volta delle macchine, primattori inconsapevoli in cui siamo noi stessi il prodotto, protagonisti di serie fatte appositamente per noi e per quello che resta della nostra individualità, manco fossimo finiti all’interno di una puntata di Black Mirror. Perché no: facciamo di noi stessi tanti piccoli Don Chisciotte senza sfidare i mulini a vento, ma mostrando a chi ci vuole soggiogare all’assenza di visione di una macchina che l’uomo saprà essere sempre un passo avanti. Saprà sempre scrivere meglio di esse, recitare meglio di esse, tirar fuori qualcosa che nessuno ha ancora visto.

Solo così vinceremo una guerra persa: non con gli scioperi, bensì con la prospettiva di chi ha ancora voglia di divertirsi con le note e combinarle fuori dagli schemi di un algoritmo. Farci minoranza perché la maggioranza ce la siamo giocata in partenza con un’idea di progresso che non fa altro che assecondare la nostra pigrizia e la nostra scarsa volontà di andare in profondità. Fuori dal circuito delle major, dando forza alle produzioni più piccole.

Questo, in fondo, ha fatto le fortune della televisione negli ultimi trent’anni, da Twin Peaks e I Soprano a Breaking Bad e Succession: nel momento in cui abbiamo smesso di pensare che le cose non potessero funzionare in un modo diverso per raccontare qualcosa di artisticamente valido, siamo diventati un po’ più belli, ma nel momento in cui la televisione si è cinematografizzata in una deriva che fa leva sulle solite certezze e circoli viziosi in cui l’artigianato ha ceduto il passo a una asettica industrializzazione, abbiamo perso tutto. Non arrendiamoci sennò faremo la fine di René Ferretti, rimpiazzato da un automa per la direzione di Troppo Frizzante: abbracciamo il René Ferretti sognatore, quello di Machiavelli e di Io Giuda, sosteniamolo con tutte le nostre forze e ogni cosa, almeno per un attimo, andrà per il meglio. Fuori da un multisala, dentro un piccolo cinema d’essai. Perché non dobbiamo avere paura dell’intelligenza artificiale in sé, non è essa il nostro vero nemico: dobbiamo avere paura dell’intelligenza artificiale che c’è dentro noi stessi. Quella sì, dovremmo combatterla fino allo stremo. Purtroppo, però, la bandiera bianca sventola ormai da tempo.

Antonio Casu