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Segui la musica, Boris

Attenzione: evitate la lettura se non volete imbattervi in spoiler sulla quarta stagione di Boris

Io, Giuda. Io, René Ferretti. Il traditore, pronto a sacrificare una vita più semplice in nome dell’amore. L’amore per un Dio, il Cinema. La sua Dea, la sua Musa. La sua ragione di vita, fino in fondo. Non per i soldi: non i trenta denari, dati a un vagabondo, non i diritti d’autore da sacrificare sulla gratuita piazza della rete. Ma per se stesso, per tutti. Per lui, Giuda. Che col suo atto oltraggioso si mette tutti contro per liberare altrettanti: la Luce di un Dio si trasmette così all’esempio di un regista sognatore, mai davvero disilluso.

Un povero ingenuo, René, trattato così per un’intera carriera da chiunque abbia incontrato sulla sua strada. Da chiunque avesse capito, fin da subito, di dover usare il sistema invece di distruggerlo, nell’amara convinzione di non poter in alcun modo cercare un’alternativa. Da chiunque l’aveva messo in guardia e da chiunque gli aveva voluto bene. Ma René, a un certo punto, tradisce tutti. Fa tutto di nascosto e si mette in testa di poter fare, per una volta, qualcosa di bello. Qualcosa di davvero suo. E ci riesce, nel momento in cui segue la musica. Così come fa, a sua volta, Boris, nella quarta stagione come non mai.

La musica, la solita musica che tutti sentiamo ma che finiamo per relegare sempre a un vago sottofondo. La nostra vera anima, i nostri desideri più reconditi, l’esplosione del nostro istinto. Soffocata da eccessivi compromessi, non suona mai. E ci voleva lo spirito di Mattia Torre, quel genio capace di trascendere la morte ed essere ancora tra noi grazie allo spirito dei suoi compagni di viaggio, per ricordarcelo. Sussurrarlo, dagli Inferi di una quarta stagione, la quarta di Boris, che una quarta stagione in realtà quasi non è. È un inganno, per certi versi. Il più dolce degli inganni. Un tradimento sì, anche questo, ma ancora una volta un atto d’amore purissimo. C’eravamo convinti infatti che l’avessero fatto solo per noi, fan della prima ora, e per i fan dell’ultimo minuto che avevano scoperto questo capolavoro davvero italiano solo ai tempi del lockdown. Invece no, non fino in fondo. Perché in verità la quarta stagione di Boris non ha noi come fine ultimo, ma l’omaggio a un amico purtroppo andato via troppo presto.

Boris 4, in sostanza, è una lunga e struggente lettera destinata a un uomo talmente vivo da non poter essere in qualche modo un fantasma. Scritta con grande efficacia da Luca Vendruscolo e Giacomo Ciarrapico, firmata dai protagonisti della straordinaria fuoriserie e spedita a noi, solo di riflesso.

Perché no, non pensavano ad accontentarci. Avrebbero potuto farlo alle nostre condizioni: sanno scrivere come pochi altri, sarebbe bastato poco. Avrebbero potuto, ma hanno deciso di fare quello che hanno sempre fatto: farsi seguire, seguendo la musica. Un flow tutto loro, intenso e a tratti straziante, divertente e mai frivolo, persino drammatico. In una parola: Boris, quella di sempre. Seppure profondamente diversa. Commovente, nell’idea che facciano persino dei numerosi limiti di questa strana stagione, voluti, un’opera d’arte. Autoreferenziale, fino allo stremo. Mai con arroganza, ma sempre con la massima focalizzazione su se stessa e su un messaggio da trarre dalle righe, con l’indispensabile sensibilità. Boris, così, si racconta ancora, regala un abbraccio a ognuno dei suoi protagonisti e, nel farlo, si aggrappa allo spirito del suo profeta e accarezza pure noi, senza sottrarci alle nostre responsabilità da spettatori solo apparentemente più maturi.

Tra un omaggio al Match Point di Woody Allen e uno al Brian di Nazareth dei Monty Python, allora, Boris si prende sempre più sul serio, spezza le regole imposte dagli algoritmi come quindici anni fa aveva spezzato quelle della nostra tv generalista e va per i fatti suoi, senza preoccuparsi di non sovrapporre Occhi del Cuore alla sua narrazione meta-televisiva. Si muove rapida tra otto puntate che tutto sommato rappresentano il travestimento di un film organico, a suon di musica. Con la maturità di chi verrà sempre seguito, nel momento in cui avrà qualcosa di davvero nuovo e valido da raccontare. E intreccia il suo destino a quello del suo eroe, René Ferretti. Sempre lui, calato nei panni del Giuda per avere finalmente il finale che avrebbe meritato tanto tempo prima.

Simula e dissimula, all’interno di una serie tv che era arrivata al solito punto di rottura. Qualità o morte, e quindi morte creativa. Non la Vita di Gesù, ma gli Occhi del Cuore Sacro di Gesù. Una caduta nel baratro, fino al lampo di genio. L’idea definitiva, un compromesso che per una volta non viene fatto per salvaguardare la sopravvivenza lavorativa, ma per dare respiro a una vita artistica alla quale non aveva mai voluto staccare la spina. Nel finale della quarta stagione di Boris c’è tutta l’essenza di un personaggio, della serie a cui ha dato l’anima e una perfetta sovrapposizione con le conclusioni della terza stagione e del film: così come Medical Dimension si era trasformato in Occhi del Cuore 3 e La Casta in un terribile cinepanettone, Vita di Gesù diventa Io Giuda. Al contrario, per una volta: non c’è più la resa di un regista ingabbiato dal mutuo e da un mondo che di Machiavelli e gli Anni Settanta non voleva proprio saperne, ma il grido di libertà di un uomo che riesce finalmente a dar vita al suo capolavoro.

René Ferretti ottiene così il suo riscatto e libera con esso chiunque avesse lavorato con lui per decenni. Coloro i quali non pensavano potesse esserci un’alternativa al sistema in cui erano sempre stati inseriti, si ritrovano insieme per un’ultima volta, in una sala cinematografica, alla première di un film che nessuno voleva ma di cui tutti avevano bisogno. Lo scacco matto all’algoritmo, perché ogni tanto quella maledetta pallina centra il canestro e va a segno. Grazie all’intuizione di un sognatore e il sussurro di un vero genio, straordinariamente presente in ogni singolo momento della quarta stagione: Mattia Torre. “Segui la musica”, ripete più volte il suo alter ego all’orecchio di René. Anche nel momento in cui tutto sembra ormai perduto e la rovina davvero imminente. “Segui la musica”, segui te stesso. All’inseguimento di un sogno, incarnato da una goffa danza che avrebbe voluto mostrare al mondo chissà quanto tempo prima. Persino ridicola, sulle note della What a Feeling di Flashdance. Grottesca, e bellissima. Segue la musica, René. E con lui un manipolo di legali, la Piattaforma, l’algoritmo e tutti noi, uniti in una danza che in fondo ha tutto il senso possibile e immaginabile. Una locura, in sostanza. Ma al contrario, perché il mondo non s’è capovolto mentre noi possiamo farlo in ogni momento.

Il resto è storia: l’acquario in cui era ingabbiato quel pesce rosso di René si rompe e l’ossigeno che si pensava sarebbe mancato gli entra invece nei polmoni come mai aveva fatto. L’ampolla si trasforma in un oceano sterminato, non esistono più confini, non esistono più regole: il regista fa un compromesso con se stesso, non si ferma più e vince la sua scommessa più difficile. Come fa Boris con una quarta stagione che aveva molti dei presupposti normalmente presentati da un fallimento annunciato e in cui tanti non avevano creduto, specie chi aveva amato fino in fondo questa straordinaria parentesi della serialità italiana. Ma Boris è fatto così: non nasce per rispettare un pronostico, ma per ridicolizzarlo, riscrivere delle regole che nessun altro potrà seguire, essere se stesso al di là del risultato ed essere unica e irripetibile. L’aveva già fatto quindici anni fa e lo rifà oggi, nel 2022, in un mondo che sembrava non essere più suo. E tutto sommato è proprio questo a fare davvero la differenza.

Ora chissà, forse andrà avanti, forse no. Forse ci riproverà, forse ci riuscirà per la quinta volta. Ma noi, i fan che hanno imparato la lezione, non ci sbilanceremo più. Facciano quello che vogliono, quei geni terreni e ormai ultraterreni. Ci tradiscano, mantengano la promessa mai fatta, facciano altre venti stagioni o si fermino qui, non conta più: in un modo o nell’altro, capiremo di aver ancora bisogno di loro solo nel momento in cui scorreranno i titoli di coda. E ci sentiremo un po’ più liberi. Malinconicamente leggeri. Più coraggiosi, più sovversivi. Noi, Giuda.

Antonio Casu