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Rumore Bianco – La Recensione: la vita è un lungo giro tra gli scaffali di un supermercato. E poi si va alla cassa

Nel 1985, lo scrittore americano Don de Lillo dava alle stampe la prima edizione di un piccolo capolavoro della letteratura postmoderna tradotto in Italia con il titolo di Rumore bianco. Il termine, da cui prende il nome l’opera, fa riferimento a quella presenza di suono costante e privo di interruzioni periodiche, utilizzato solitamente per mascherare altri tipi di suono. Gli esempi più comuni sono tutti i suoni appartenenti al mondo naturale (la pioggia, il vento, le onde del mare) ma anche quelli prodotti da un ventilatore, un phon, per esempio. Nel caso della storia della famiglia Gladney, però, il “rumore bianco” diventa la metafora utilizzata da De Lillo per dare corporea sonorità al consumismo dilagante ed esemplificativo dei supermercati, alla paranoia indotta dai media e all’ansiogena e costante paura della morte.

Le vicende che coinvolgono la famiglia Gladney sono quindi solo la rappresentazione surreale ed estremizzata di una realtà che De Lillo conosceva molto da vicino e in cui noi, gente del futuro, possiamo ancora rispecchiarci. Attraverso poi la mano, ormai inconfondibile, di un autore come Noah Baumbach, il film targato Netflix viene infuso di quella carica nevrotica newyorkese tipica dei film del regista e di un’immagine della coppia sconosciuta all’opera originale e più vicina al modo di sentire di Baumbach.

ATTENZIONE! Se non avete ancora visto Rumore Bianco, la recensione che segue potrebbe contenere spoilers.

Rumore Bianco
La famiglia Gladney (640×360)

Ambientato nel 1984 in una immaginaria cittadina universitaria del midwest americano, Rumore Bianco vede protagonista Jack Gladney (Adam Driver), professore rinomato e amato da tutti che ha fondato per primo lo studio della Hiterologia (ovvero lo studio approfondito e quasi religioso della figura di Adolf Hitler), insieme alla moglie Babette (Greta Gerwig) e i quattro figli. di cui tre avuti da precedenti matrimoni: Heinrich, Steffie e Denise. Idealmente diviso in tre parti, il film segue la famiglia Gladney alle prese con la vita di tutti i giorni e una nube tossica dalla quale devono presto fuggire. La pellicola si apre mostrandoci i membri della famiglia, le dinamiche sgangherate che li legano gli uni agli altri e la posizione di prestigio che Jack ricopre all’università. Già in questa primissima parte si può ritrovare una critica alla dimensione accademia e a coloro che pomposamente ne fanno parte, sicuri delle loro posizioni all’interno della piramide sociale ma poi, a conti fatti, capaci solo a parlare di argomenti inutili e banali.

Lo stesso Jack ci viene mostrato come un protagonista che non si eleva affatto rispetto agli altri ma che anzi, quasi quasi, risulta il più pomposo e ipocrita tra tutti. La materia da lui insegnata, la Hitlerologia appunto, è di fatto una super cazzola alla “Amici Miei”. L’ammirazione che Jack riceve sia dai suoi alunni sia dai colleghi rasenta la venerazione cieca, la stessa che ha spinto così prontamente le masse a radunarsi sotto il braccio sollevato e dritto di un certo dittatore. Anche nel rapporto con i suoi familiari, Jack mantiene un atteggiamento di paternalistica superiorità. Nei confronti dei figli, le cui domande e curiosità vengono liquidate con un insopportabile “perché si” e nei confronti di Babette, attraverso un sottile atteggiamento maschilista e narcisista secondo cui la moglie è inevitabilmente vittima del suo stato naturale di donna.

White Noise
Don Cheadle e Adam Driver (640×320)

La quiete vita americana dei Gladney e della loro comunità va in frantumi di fronte all’evento catastrofico di cui sono spettatori passivi, e che ha tutto il sapore di un rimando a Chernobyl.

Costretti a lasciare la propria casa, i Gladney si uniscono a una carovana di macchine in fuga verso una terra promessa. L’evacuazione, che occupa la seconda parte del film, mette così in luce le paure e le ansie che covano sotto la superficie di una qualsiasi normalissima esistenza. Da questo evento, i Gladney adulti tornano profondamente cambiati ma chiusi nel loro isolamento emotivo: da un lato Jack, dopo essere rimasto esposto alla nube per circa due minuti, deve convivere adesso con la consapevolezza che un giorno più o meno lontano morirà; dall’altro Babette è così internamente consumata dall’ immotivata paura di morire che arriva perfino a prostituirsi per sperimentare un fantomatico farmaco miracoloso.

La terza parte vede quindi il ritorno dei Gladney alla normalità ma la facciata borghese si sta ormai sgretolando in mille pezzi. Dilaniata dai sensi di colpa, Babette confessa infine di aver partecipato a uno studio clinico sperimentale per porre fine alla propria “condizione” e che, per riuscire nel suo intento, ha iniziato uno scambio con un misterioso Mr. Grey: sesso in cambio di pillole. Il fatidico incontro con Mr. Grey, la sete di vendetta di Jack e l’intervento di Babette non assumono, però, come potremmo aspettarci il ruolo di catarsi dell’intera vicenda ma solo un altro momento sulla scena in questo teatro dell’assurdo.

Adam Driver e Greta Gerwig (640×336)

Ecco allora che la paura per la morte, il tradimento coniugale e persino la catastrofe da poco scampata vengono, in Rumore Bianco, decostruiti e ridotti a sciocchezze di poco conto, semplici masturbazioni mentali nella più tangibile e reale vita quotidiana.

Quel tentativo costante di cercare un valore aggiunto, di riuscire a toccare l’invisibile si scontra con il mondo materiale, figlio di padre capitalista e madre consumista, e viene proprio da questo mondo sconfitto. Risulta evidente come Rumore Bianco, pur essendo una storia figlia del suo tempo, riesce a parlare anche noi in quest’era post pandemia, dove la paranoia e l’influenza dei media è quanto mai opprimente. Un po’ come il pendolo di Newton, sia nel film che nel nostro presente assistiamo a un’oscillazione costante tra ricerca del trascendente e attaccamento al materiale, il desiderio di un altro divino e la comfort zone dei nostri averi. Il supermercato diventa allora luogo di incontro e scontro di queste due pulsioni, un posto in cui il consumismo trova la sua massima rappresentazione ma diventa, allo stesso tempo glorificato e divinizzato.

Metafora della vita, siamo tutti noi a muoverci tra le fila infinite e identiche di un supermercato infinito, alla ricerca ora di una dolce distrazione ora di un momento salato da digerire. Eppure qualsiasi sia la corsia che decidiamo di imboccare, per quanto il nostro carrello possa essere vuoto o pieno, in fin dei conti ci ritroviamo tutti lì alla cassa, pronti o meno a pagare il conto.