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È finita (bene), andate in pace – La recensione dell’ultima stagione de La Casa de Papel

Circa 4 anni fa sbarcava nelle nostre case una serie spagnola che si sarebbe rivelata un terremoto. Una serie che è riuscita a scaturire negli spettatori un’infinità di sensazioni, emozioni, ma soprattutto giudizi: amata, odiata, venerata, presa in giro, emulata, derisa, a volte finanche tutte queste cose insieme. Per un piccolo periodo di tempo abbiamo creduto (tutti, non neghiamolo) che potesse trattarsi di una delle migliori serie tv di tutti i tempi, poi abbiamo capito che La Casa de Papel era qualcosa di diverso e che non ambiva a quel titolo lì, che non ambiva a essere una delle migliori e nemmeno a essere qualcosa di particolarmente originale. Ma per essere ricordati, per rimanere scolpiti nella memoria di chiunque ti guardi, non devi essere per forza il migliore: devi funzionare. E pur con tutte le sue storture, i suoi colpi di scena forzati, la sua vena trash sempre più fieramente mostrata, La Casa de Papel ha funzionato eccome. Fino in fondo. Magari non come prodotto seriale in senso stretto, ma come fenomeno mediatico a tutto tondo assolutamente sì. Altrimenti non ne avrebbero parlato tutti, in questi 4 anni. Altrimenti non ne starebbero parlando tutti, oggi che è finita.

E come poteva finire, La Casa de Papel? Bene, ovvio. In fondo lo abbiamo sempre saputo tutti che non sarebbe mai potuta finire davvero male per il Professore e la sua banda di scappati di casa. Non sarebbe potuta finire con loro (i sopravvissuti) morti ammazzati o tutti in galera, perchè La Casa de Papel è riuscita a essere una serie allegra e speranzosa nonostante tutti i morti, le sparatorie, le miriadi di cose illegali mostrate durante il suo percorso. In genere nelle serie in cui i protagonisti commettono un’infinità di crimini, questi ultimi finiscono sempre male: c’è un (giusto) messaggio da dare al popolo: “Esaltatevi pure per le loro malefatte, ma tenete conto che poi finirà male sempre e comunque”. La Casa de Papel però un messaggio vero e proprio non l’ha mai voluto dare: è stata un inno al romanticismo raffazzonato, sempre più spesso gratuito durante il suo incedere, e romanticamente non poteva che chiudersi, col Professore che riesce a realizzare (illeso) il sogno di suo padre prima e di suo fratello Berlino poi, andando a vivere felice e contento chissà dove con la sua amata, i suoi amici e un mucchio d’oro a cui poter attingere in caso di necessità.

La Casa de Papel
La Casa de Papel

Oppure il messaggio, La Casa de Papel l’ha perso per strada. Perchè era proprio il messaggio una delle cose per cui, inizialmente, ci siamo interrogati sul fatto che potesse trattarsi potenzialmente di una delle migliori serie tv di tutti i tempi: nelle prime due stagioni i personaggi e le loro storie erano maggiormente approfonditi, e il tema della Resistenza era sviluppato, o quantomeno suggerito, con un senso compiuto, per quanto condivisibile o meno. Un gruppo di emarginati, maltrattati, sottovalutati e disperati che provavano a giocarsi il jolly della vita andando a rapinare la Banca di Spagna per poi, chissà, redistribuire la ricchezza in giro per la nazione come dei Robin Hood moderni. Unendo questo a una trama che sembrava molto intrigante (specie nella parte relativa al rapporto tra il Professore e Berlino, che solo successivamente si è scoperto fossero fratelli) e un ritmo tra i più alti e ben riusciti – questo sì, fino alla fine della serie – nella storia delle serie tv, i presupposti per un prodotto di alto livello sotto tutti i profili sembravano esserci. Poi però non è andata proprio così: il Professore e i suoi sono tornati per fare una rapina ancor più leggendaria della prima, e col solo pretesto di salvare uno di loro finito nelle mani di chi li voleva morti solo perchè a vivere una vita di agi e libertà si erano annoiati tutti, e volevano sentire qualcosa.

Certo, il Professore in particolare qualche motivo in più ce lo aveva, e ce lo ha rivelato in uno dei pochi momenti – veramente – intensi ed emozionanti dell’ultima puntata della serie: quella in cui ha raccontato la morte di suo padre, che dopo una rapina non si è inginocchiato in tempo davanti alla richiesta della polizia di farlo perchè stava guardando suo figlio. Un figlio che si è portato appresso il fardello e l’ossessione del genitore, riuscendo a trasmetterla a un gruppo foltissimo di adepti. Ma è qui che casca uno dei tanti asini de La Casa de Papel: se il primo colpo era voluto da tutti (in modo credibile) per raggiungere l’agognato riscatto sociale ed economico, durante il secondo colpo solo il Professore aveva qualche motivo personale valido per rischiare tutto. Tutti gli altri – Tokyo esclusa – non ne avevano mezzo. Eppure si fanno trascinare da quest’uomo sì geniale, ma mica chissà quanto carismatico. Così, perchè si erano rotti le palle di vivere la loro vita in libertà e ricchezza. Perchè al fatto che lo facessero davvero per Rio, un ragazzetto che avevano conosciuto per un mesetto scarso e che non stava manco chissà quanto simpatico in giro, non ci crede nessuno.

Inutile però parlare degli innumerevoli buchi di trama de La Casa de Papel: la serie ne ha fatto quasi un vezzo, e ce ne sono stati talmente tanti fin dall’inizio che a un certo punto secondo me gli sceneggiatori se ne sono fregati, anche perchè per gli spettatori la cosa a un certo punto ha fatto il giro ed è diventata normale. Anche quest’ultima stagione non ne è stata esente, per quanto – paradossalmente – ce ne siano stati comunque di meno che in precedenza. Tutta l’evoluzione della storia dell’oro risulta abbastanza incomprensibile, ma abbiamo smesso di farci domande: ci hanno riempito di paroloni e presunti tecnicismi che nessuno andrà a controllare, e va benissimo così. Anche coi deliri di matrice economica e finanziaria nell’ultima puntata ci hanno dato dentro: borsa, spread, furti, metafore sui centri scommesse. A un certo punto non ci abbiamo capito più niente, ma a chi importa davvero?

L’introduzione a gamba tesa dei personaggi di Tatiana e del figlio di Berlino dentro la narrazione attuale e non solo come memorie di un passato lontano è stata in fin dei conti buona, con la storia dei ladri che rubano ai ladri. Il finale a tarallucci e vino con la spartizione di pani, pesci e oro della Banca di Spagna tra il Professore e suo nipote abbastanza scontato e banale, ma anche questo va bene così: di pretese non ne avevamo più già da un pezzo. Piuttosto Berlino è stato ridotto in quest’ultima stagione, nei flashback, a un mix tra linea comica della serie e protagonista di una soap opera a se’ stante, ma si spera facciano di meglio nello spin-off a lui dedicato per valorizzare e raccontare con più incisività quello che, a tutt’oggi, rimane il personaggio più interessante della serie. Il più interessante e meglio recitato assieme a quello di Alicia Sierra, che però ci ha regalato delle tali vagonate di trash che saremo costretti ad approfondire meglio la cosa in dei prossimi articoli.

E insomma, stavolta è finita davvero. Adesso possiamo davvero andare tutti in pace: che l’abbiate amata, che vi abbia fatto schifo, che ve la sogniate la notte o che siate pronti a dimenticarvene già da domani, la cosa certa è che La Casa de Papel è riuscita a intrattenerci, divertirci e farci discutere per quattro lunghi anni, e di questo dobbiamo darle atto. Magari non era il suo unico intento, ma questo ci rimane. Assieme al personaggio di Marsiglia: per quello, le saremo grati per sempre.

la casa de papel
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