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Il film della settimana: The Elephant Man

Tutti abbiamo vissuto quella spiacevole situazione raccontata brillantemente da Zerocalcare in Strappare lungo i bordi: chi non è mai stato ore a scorrere i film sulle piatteforme streaming e non trovare niente da vedere pur avendo a disposizione “tutto l’audiovisivo del mondo” e pensando “è possibile che son tutti film de m*rda”? Certo, la roba bella magari l’abbiamo già vista, altra siamo in ritardo e altra ancora la teniamo per il momento giusto – se arriverà. Vogliamo evitare, però, di finire nella fantascienza polacca del ‘900 in lingua originale, andare a letto frustrati con la nostra coscienza sottoforma di Armadillo che ci costringe a interrogarci su noi stessi dicendo: “Dai su, se su ottomila film non te ne va bene manco uno, forse sei te che non vai bene”. Proprio per questo nasce la seguente rubrica settimanale, in onda ogni lunedì e rivolta sia a chi la pellicola in questione non l’ha mai vista, sia a chi l’ha già visionata e vuole saperne di più: infatti, nella prima breve parte vi consigliamo un film; nella seconda invece ve lo recensiamo, analizziamo o ci concentreremo su un aspetto particolare. E questa settimana abbiamo scelto The Elephant Man.

PRIMA PARTE: Perché, dunque, vedere The Elephant Man? Ecco la risposta senza spoiler.

Disponibile su Amazon Prime Video (a noleggio su Apple Tv+), The Elephant Man racconta la vera storia di John Merrick, un uomo affetto dalla rarissima malattia denominata sindrome di Proteo, che causa la crescita incontrollata di pelle, ossa e tessuti su quasi tutta la superficie del corpo, compreso il volto. Totalmente sconosciuta nella Londra vittoriana, Merrick venne confinato in un circo, chiamato Uomo Elefante e brutalmente sfruttato come fenomeno da baraccone. Tutto finché il chirurgo Frederick Treves decide di aiutarlo, pagando per la sua libertà e ricoverandolo al London Hospital per curarlo e studiarlo. Piano piano, Treves comprende che, dietro l’apparente mostruosità di Merrick, si cela una profonda sensibilità e i due instaurano un profondo rapporto di amicizia, fino al tragico epilogo.

Ispirandosi in parte al libro di Treves, David Lynch firma un film atipico nella sua poetica (anche se già emergono l’attenzione allo sguardo e tematiche a lui care), poiché privo di quell’oniricità e complessità visiva che solitamente giocano un ruolo di primo piano, in cui denuncia come i freaks o, semplicemente, le persone “diverse” vengono trattate per il divertimento e per rimpolpare la sicurezza dei normodotati. Non cade mai nel pietismo, lasciando che le emozioni facciano il loro bellissimo e naturale corso. Tecnicamente, ci presenta un’opera dal meraviglioso bianco e nero che da un lato ci catapulta in quegli anni, dall’altro sottolinea la tristezza che traspare in ogni fotogramma. Sostenuto da una scrittura senza punti morti, una colonna sonora bellissima e cast meraviglioso (tra i quali il tormentato John Hurt, il combattivo Anthony Hopkins e la dolce Anne Bancroft), venne candidato a otto Oscar, non vincendone vergognosamente nessuno. Il suo produttore, Mel Brooks, però ci vide lungo, dicendo:

“Da qui a dieci anni Gente comune sarà la risposta a un gioco di società; ma la gente andrà ancora a vedere The Elephant Man”

E ha ragione. Sebbene per mia discolpa l’abbia recuperato troppo tardi, The Elephant Man è un cult così emozionante, toccante, dolce, palpitante e poetico che merita davvero che tutti lo vedano. È anche duro, crudo, straziante e deve esserlo. Senza contare che potrebbe benissimo essere un prodotto di oggi, tanta è la sua forza. Dunque, dopo averlo visto su Amazon Prime Video, vi aspetta il nostro approfondimento, incentrato sul modo in cui Lynch affronta la diversità.

SECONDA PARTE: La poetica della diversità in The Elephant Man (con spoiler)

The Elephant Man

Nella forma The Elephant Man può sembrare il film meno lynchiano di tutti, ma nei contenuti tratta temi che continueranno a tornare nelle opere del regista. In particolare, a noi interessa il modo poeticissimo con cui affronta la deformità, nobilitandola e non sminuendola. Già in Eraserhead ne avevamo un esempio: la Lady of the Radiator, dalle grosse guance deformi e con una gentilezza disarmante, riusciva a scacciare via angoscia e terrore. Lei, che avrebbe dovuto disgustarci, ci dava una sensazione di sollievo perché vederla equivaleva a dire: “siamo al sicuro e tutto andrà bene”. Nella stessa maniera David Lynch rappresenta John Merrick. Ci mostra gradualmente il suo corpo, ci fa intuire quello che vedremo (come nella scena in cui Treves lo presenta ai colleghi, in cui ne noi osserviamo solo l’ombra illuminata dietro a una tenda) e, in questo modo, elimina quel disgusto che quasi sicuramente influirebbe sul modo in cui giudicheremo l’uomo. E percepiamo anche il carattere sensibile e dolce di Merrick fin da subito, attraverso quella sua gestualità spaventata, remissiva e timorosa.

Lynch dà un taglio soggettivo alla sua opera, così da farci immedesimare in quella persona nascosta dietro la deformità, vittima di violenza gratuita e di quel bullismo crudele che, purtroppo, parecchi di noi hanno subito.

The Elephant Man, piano piano, ci fa conoscere, capire ed empatizzare con Merrick, arrivando a provare per lui una sincera ammirazione. Scopriamo un uomo dall’animo gentile, pieno di interessi, che ha una grande cultura e che ama la letteratura, il teatro e le persone. Starebbe ore a chiacchierare con loro. È un essere umano fuori dal comune non per la sua mostruosa fisicità, ma per quanto sia bello interiormente. E David Lynch lo mostra anche contrapponendolo ai normodotate della pellicola. Infatti, The Elephant Man vuole anche indagare come ci rapportiamo con la diversità. Le persone di solito passano attraverso tre fasi: lo shock/disgusto, la curiosità e la neutralità. Inizialmente, sia noi spettatori che i personaggi del film su Amazon Prime Video rimangono sconvolti, quasi spaventati, da John. D’altronde, come dice lui stesso:

Gli uomini hanno paura di ciò che non capiscono”.

Anthony Hopkins e John Hurt nel film di David Lynch su Amazon Prime Video

Ed è semplicemente la pura verità. Inoltre, l’orrore dato dalla deformità nasce pure dal fatto che essa è svilente per la persona che ce l’ha. Ma, se riusciamo a superare la prima fase, subentra la curiosità. Quest’ultima può essere positiva, se desideriamo comprendere il diverso come il dottor Treves, o negativa se vogliamo vedere ciò che riteniamo mostruoso solo per provocare in noi spavento e/o per rincuorarci che non siamo come lui. Di solito, purtroppo, vince la seconda. Pochi vanno oltre, giungendo alla fase della neutralità: qui la diversità è normalizzata e non vediamo più John l’Uomo Elefante, ma John Merrick l’essere umano, con i suoi pregi e difetti. Lynch ci fa arrivare a quest’ultima fase con naturalezza, concentrando l’attenzione su ciò che realmente è importante in una persona. E non è l’aspetto fisico.

Di conseguenza, nobilitando la deformità di Merrick, l’indice viene puntato verso i normodotati. Certo, David Lynch non vuole dire che tutte le persone affette da deformità siano moralmente elevate, ma ciò che vuole criticare è l’ipocrisia della società. Non dovremmo provare disgusto per John, ma per tutte quelle persone che hanno un comportamento brutale nei suoi confronti e si avvicinano a lui solo per ottenere qualcosa, che sia di natura monetaria o conoscitiva. Straziante è, infatti, il modo in cui viene trattato dall’impresario del circo, dallo spregevole guardiano notturno (che lo tortura facendo pagare la gente per entrare nell’ospedale e guardarlo) e da quella folla in preda alla rabbia che lo insegue senza tregua e a cui lui urla la dolorosissima frase che racchiude il senso di tutta l’opera:

Io non sono un elefante! Io non sono un animale! Sono un essere umano!

Perché il suo desiderio è quello di essere trattato come tutti, non come un mostro. E Treves sembra farlo, se nonché la capo infermiera Madre Shead gli fa notare che, nonostante la buona volontà, sta trattando Merrick esattamente come al circo. Treves rimane così scosso da arrivare a chiedersi: “Sono buono o cattivo?”. Ma ha anche la forza di andare oltre, svelando il bellissimo lato umano di John, che evidenzia ancor di più le angherie dei suoi aguzzini e ci permette di entrare davvero in empatia con Merrick.

The Elephant Man

Soprattutto, solleva in noi moltissime domande. È facile dire che l’apparenza non conta ed è semplice commuoverci di fronte a un personaggio come Merrick. Però, nella realtà, come agiremmo veramente? Saremmo davvero capaci di andare oltre quell’aspetto mostruoso e quello sguardo superficiale? È la stessa domanda che si pone Treves e che viene girata a noi: sapremmo amare veramente John Merrick? Già perché The Elephant Man smaschera anche la nostra di ipocrisia; quella che ci spinge a vedere la pellicola su Amazon Prime Video per quell’horror nascosto in Merrick. In realtà, scopriremo che l’orrore vero è celato nel voyerismo della società, tanto nel circo quanto nell’ospedale. Ma sarà lo stesso John a mostrare le differenze tra questi due luoghi che l’hanno fatto soffrire:

“Io sono felice ogni ora del giorno, amico mio… Anche se dovessi sapere di morire domani… La mia vita è bella, perché so di essere amato… lo sono fortunato“.

Ed era uno dei suoi desideri, essere amato. Come faceva sua madre, l’unico amore che abbia mai conosciuto e provato prima dell’amicizia di Treves. L’unica persona che lo faceva sentire normale. Se ci pensiamo, il modellino di cattedrale che costruisce Merrick rappresenta la sua vita: vedendo la punta, può solo immaginare come possa essere quell’edificio; allo stesso modo, a causa della sua condizione, può solo immaginare com’è vivere da uomo comune. Ed è proprio l’immaginazione quel posto sicuro in cui nessuno gli farà del male, in cui tutto è perfetto, in pace e in armonia.

Tuttavia, riesce a vivere la serata dei suoi sogni, vestendosi con lo smoking, andando a teatro e venendo trattato con rispetto e gentilezza. Allora, sceglie anche di dormire come una persona normale, togliendo i cuscini nonostante sapesse che quest’azione l’avrebbe ucciso in pochi minuti. Con questo gesto commovente, sceglie consapevolmente di morire e contemporaneamente di vivere sul serio. Dopo tutta la sua sofferenza, vede tra le stelle sua madre che recita una poesia, rappresentando tutto ciò che di meraviglioso c’è stato nella breve esistenza di Merrick: ad esempio, sua madre e la bellezza dell’arte, della poesia e della natura. Ha avuto la fortuna di trovare un salvatore, che l’ha tirato fuori dal buco nero della violenza e del dolore, ed è stato in grado di decidere finalmente per sé. Ed è questo il suo atto di estremo coraggio e il motivo per cui Merrick, alla fine, ha vinto. Potendo finalmente morire, in pace, da uomo libero.

Il film della scorsa settimana: Mank