Vai al contenuto
Serie TV - Hall of Series » Film » Il film della settimana: Mank

Il film della settimana: Mank

Tutti abbiamo vissuto quella spiacevole situazione raccontata brillantemente da Zerocalcare in Strappare lungo i bordi: chi non è mai stato ore a scorrere i film sulle piatteforme streaming e non trovare niente da vedere pur avendo a disposizione “tutto l’audiovisivo del mondo” e pensando “è possibile che son tutti film de m*rda”? Certo, la roba bella magari l’abbiamo già vista, altra siamo in ritardo e altra ancora la teniamo per il momento giusto – se arriverà. Vogliamo evitare, però, di finire nella fantascienza polacca del ‘900 in lingua originale, andare a letto frustrati con la nostra coscienza sottoforma di Armadillo che ci costringe a interrogarci su noi stessi dicendo: “Dai su, se su ottomila film non te ne va bene manco uno, forse sei te che non vai bene”. Proprio per questo nasce la seguente rubrica settimanale, in onda ogni lunedì e rivolta sia a chi la pellicola in questione non l’ha mai vista, sia a chi l’ha già visionata e vuole saperne di più: infatti, nella prima breve parte vi consigliamo un film; nella seconda invece ve lo recensiamo, analizziamo o ci concentreremo su un aspetto particolare. E questa settimana abbiamo scelto Mank.

PRIMA PARTE: Perché, dunque, vedere Mank? Ecco la risposta senza spoiler.

Disponibile in streaming su Netflix, Mank è il soprannome di Herman J. Mankiewicz, geniale sceneggiatore che lavorò con l’amico-rivale Orson Welles per la stesura di quello che è considerato IL film per eccellenza, Quarto Potere. La pellicola ripercorre il suo processo creativo per la realizzazione di questa sceneggiatura, che si compone di idee che lo scrittore pesca dal suo passato mentre è costretto a letto da un incidente, perché un autore davvero grande mette sempre qualcosa di sé nella sua creazione. Però, il racconto si amplia e parla anche di quest’uomo in generale, le cui capacità artistiche sono state sfruttate a lungo, senza che lui potesse tirarsi indietro, lasciandogli come unica consolazione una bottiglia di liquore.

Dunque, dopo aver realizzato quello che, con tutta probabilità, è il Quarto Potere della nostra epoca, ovvero The Social Network, David Fincher ci racconta le origini del capolavoro di Welles, mostrandoci la Hollywood degli anni ’30 in uno dei momenti fondamentali del cinema: il passaggio dal muto al sonoro. È un mondo frenetico, patinato e meno luccicante di quel che sembra, filtrato da un lavoro tecnico impeccabile, capace di farci rivivere davvero quegli anni tanto lontani nel tempo quanto vicini a certi scenari d’oggigiorno, e da una sceneggiatura superba, rilevante e ricca di dialoghi memorabili (scritta dal padre del regista). È proprio alla sceneggiatura, sempre poco considerata, che Fincher vuole rendere omaggio, perché è dal potere della scrittura che, prima di tutto, nasce un film. E lo fa attraverso il genio tormentato di Mank, interpretato da un grandissimo Gary Oldman, che brilla accanto a un ottimo cast, soprattutto a una sorprendente Amanda Seyfried come Marion Davies.

Non è né un biopic, né il racconto della creazione di un film; Mank è qualcosa che va oltre. È una sorta di Viale del tramonto che loda un cinema che sta scomparendo ma è anche momento di rinascita per una nuova settima arte che, pur andando verso il futuro, non dimentica il passato. È Fincher in tutto e per tutto e, nella seconda parte del pezzo, andremo ad analizzare questo gioiellino cinematografico in streaming su Netflix.

SECONDA PARTE: L’analisi (con spoiler) di Mank

Mank
Gary Oldman e Amanda Seyfried nel film di Fincher in streaming su Netflix

Mankiewicz è uno sceneggiatore brillante, divertente e capace di costruire dialoghi meravigliosi. È al culmine della sua carriera, ma è anche scostante, sboccato, un alcolista e con una visione politica lontana da quella repubblicana del periodo. È un uomo complicato, affascinante, fin troppo intelligente e sì, forse lo sceneggiatore più talentuoso di quegli anni. O forse è una bugia che Mank continua a ripetersi, mentre si adagia sulla fama ormai conquistata, con produttori come Mayer che preferiscono tenerlo nel loro angolo, piuttosto che lasciarlo andare in altri studios, perché chissà che potrebbe scrivere. E gli continuano a ripetere di scrivere tanto, perché è la quantità che conta in una Hollywood conservatrice e di facciata. Allora, lo sceneggiatore è diventato sempre più autodistruttivo, incurante del suo futuro, della sua carriera, persino della sua salute. Accetta di scrivere per Orson Welles senza ricevere crediti perché ha bisogno di lavorare, perché è convinto che il ragazzo prodigio è destinato al fallimento. Assieme a lui.

Riesce, però, a portare a termine la sceneggiatura in pochissimo tempo, dettando alla sua segretaria Rita quella che ritiene essere:

“La migliore che abbia mai scritto”.

E ne richiede i crediti a uno Welles che, nonostante si arrabbi, acconsentirà. Perché quelle pagine rappresentano la ribellione verso un sistema che l’ha sfruttato e poi spietatamente sputato, composto da uomini interessati più alla politica e al successo, che al cinema stesso. Seguendo il consiglio “racconta la storia che conosci”, Mank si ispira a Mayer, Hearst, Davies per sfogarsi, nonostante sappia quali siano le conseguenze; libera il suo talento per creare un qualcosa di provocatorio, compiendo però l’ennesimo passo verso quell’autodistruzione che, paradossalmente, raggiunge proprio con Quarto potere.

E sì, lui parla delle personalità che conosce, come il magnate dell’editoria William Randolph Heast che, in Quarto potere, diviene Charles Foster Kane. È un uomo potentissimo e che soltanto noi, attraverso i racconti delle persone che l’hanno conosciuto e che mettono in mostra varie sfumature del suo carattere, siamo davvero in grado di conoscere. È solo, chiuso nel suo limbo, incompreso. Non ricorda da vicino il personaggio interpretato da Gary Oldman? Infatti, lo script del film di Fincher in streaming su Netflix crea un parallelismo con Quarto Potere. Ne riprende la stessa struttura non lineare e, come quest’ultimo, cerca di capire chi è il protagonista, attraverso l’alternanza tra passato e presente, l’uso di quei flashback in cui ne viene sviscerata la vicenda umana e professionale e un quesito che percorre tutta la pellicola: per Kane riguarda il mistero legato a Rosabella, per Mank al perché scrive American. Rosabella, che è la soluzione all’enigma Kane, è sostituita da Fincher con la mente stessa del protagonista, attorno a cui ruota una storia a più voci, che guarda al presente.

Gary Oldman nel film di Fincher in streaming su Netflix

In ogni caso, pur tentando di capire davvero chi siano questi due uomini, dobbiamo cedere e riconoscere che non è possibile racchiudere la vita di una persona in due ore di film o nelle pagine di un libro. Si può solo dare l’impressione di farlo.

E rimanendo sugli aspetti più tecnici, pur essendo un film Netflix in digitale, Mank è realizzato come fosse una pellicola degli anni ’30. La messa in scena è priva di contrasti ed eccessivamente luminosa; le inquadrature sono statiche, con poche carrellate, e dai ritmi lenti; il suono è pieno di interferenze o troppo riverberato, come a ricordare una pellicola che il tempo ha ormai rovinato; c’è il bianco e nero, sono presenti le finte “bruciature di sigaretta” (ovvero il cerchio che segnalava ai proiezionisti che una bobina stava per terminare, citato anche in Fight Club), gli sfarfallii della colonna sonora o il saltare della musica che scandiscono la fine dei rulli e l’inizio del successivo e le didascalie tipiche delle sceneggiature come “1930. Esterno. Fuori dalla MGM. Giorno.”. Allo stesso tempo, anche le interpretazioni degli attori ricalcano quelle dei colleghi della vecchia Hollywood, con quello stile drammatico, non volutamente ironico ed enfatico.

Eppure, nonostante sembri una pellicola retrò, Mank è estremamente attuale, guardando al passato per proiettarci nel futuro della settima arte. E non solo.

Fincher reinterpreta il biopic, ne mette in dubbio le fondamenta fino quasi a scardinarle completamente, proponendo un’acuta analisi della società e della Hollywood di quel tempo, che ha parecchio da dire sull’oggi. Con le elezioni californiane del 1934, viene posta sotto i riflettori la bramosia di potere e la potenza stessa dei media – ugualmente a come faceva Quarto Potere. Mostra le fake news quando ancora non sapevamo cosa fossero e non erano un fenomeno globale come oggigiorno, attraverso quei filmati manipolati ad hoc dagli studios per affossare il socialista Sinclar (che avrebbe assegnato ai lavoratori dello spettacolo senza impiego dei lotti di terra inutilizzati dalle major) e promuovere il candidato repubblicano. Così, evidenzia come i media orientino fin dagli albori le masse, criticando quei poteri – come le major hollywoodiane – che li sostengono perché vogliono tutelarsi, senza tener conto di un candidato che cerca di cambiare la rotta nel periodo buio della Grande Depressione. Mettendo così in primo piano i loro interessi, che siano economici, politici o personali, e mai il cinema stesso. Basti pensare a Mayer, capo dell’MGM, che finge interesse verso i suoi dipendenti, salvo poi dimezzare lo stipendio a tutti e interessarsi solo e soltanto al suo profitto. Se ci pensiamo bene, non è quello che, seppur in maniera diversa, sta succedendo al giorno d’oggi? Con gli scioperi degli sceneggiatori (ormai finto) e degli attori?

Mank

In fondo, però, Mank è un omaggio a quel cinema che tanto critica. Lo stesso modello classico che, per anni, ha rifiutato di produrre questo film.

A detta delle major, nessuno si sarebbe interessato a un’opera del genere se non i cinefili più fanatici, soprattutto per quello stile ormai antiquato, e solo a questi ultimi avrebbe attratto la figura di Herman J. Mankiewicz, sceneggiatore dimenticato, superato dal fratellino Joseph L. Mankiewicz (regista e scrittore di Eva contro Eva) e schiacciato da Orson Welles. Tra parentesi, quest’ultimo in Mank lo sentiamo al telefono e lo vediamo per pochi secondi nella prima ora e mezzo, rappresentato con questa luce intensa alle spalle per esaltarne il mistero, per poi riapparire alla fine come un uomo arrogante e pronto a prendersi i meriti del lavoro di un altro. Questa non era propriamente una critica a Welles e questo Fincher l’ha ripetuto più volte: è un ridimensionare il suo mito per dare i giusti meriti agli altri che hanno reso grande Quarto Potere.

Fu Netflix che si prese il rischio di produrlo, risultando quasi un paradosso che una piattaforma streaming che sta sfidando il cinema classico ne produca uno proprio su quell’argomento. La cosa davvero calzante è che sia stato Fincher a realizzarlo, dato che è uno dei registi contemporanei più rivoluzionari e innovativi, ma poco amato dall’industria. Un po’ come il povero Herman. Del resto, Fincher da sempre guarda al futuro offerto dal digitale. Fin da Fight Club ne ha impiegati parecchi di effetti digitali; li ha usati, ad esempio, per ricostruire la San Francisco settantina di Zodiac o i gemelli Winklevoss in The Social Network. Inevitabile l’approdo sulle piattaforme streaming che, inoltre, a differenza delle major, lasciano più libertà artistica. E Fincher non li sopportava più i paletti degli studios. Forse è anche per questo che tra Gone Girl e Mank erano trascorsi 6 anni, in cui il regista realizza alcune serie tv Netflix come House of Cards, Mindhunter e Love, Death & Robots. Il che sembra riecheggiare l’iconica battuta di Norma Desmond in Viale del tramonto: “Io sono sempre grande. È il cinema che è diventato piccolo”, dato che il cinema è davvero diventato piccolo negli schemi, ma non per questo è meno grande. E Mank ne è la prova.

Perché, più di tutto, Fincher crea un’ode al cinema stesso. Vive e si muove in un contesto interamente meta-cinematografico, racconta la genesi ed è strutturato come il film per eccellenza, specchiandosi in Quarto Potere e mostrando la forza della settima arte. Soprattutto, sottolinea l’importanza della scrittura e degli sceneggiatori, non sottomessi al regista ma loro pari (ed è ancora più potente dato che Fincher è un regista), Infatti, lo scontro tra il personaggio di Gary Oldman e Orson Welles finisce in parità, percorrendo entrambi lo stesso cammino autodistruttivo che li conduce sì all’Oscar, che mostra il loro enorme talento e che li rende immortali, ma che li bollerà come nemici di Hollywood (a Welles venne tolto il suo secondo film, L’orgoglio degli Amberson, e Mank esce per sempre di scena). È la tragicità di quel mondo e la sua meraviglia. Ma alla fine nella pellicola di Fincher, a vincere è sempre il cinema, nuovo o vecchio che sia. Ed è questa la cosa più importante.

Il film della scorsa settimana: Era mio padre