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Ariaferma: la recensione del claustrofobico film di Leonardo Di Costanzo

Carcerieri e carcerati non sono uguali. Gaetano Gargiulo (Toni Servillo) ci tiene a metterlo in chiaro. Ma viene difficile credere che lo pensi veramente, glielo si legge in faccia. Ariaferma di Leonardo Di Costanzo è stato distribuito nelle sale italiane il 14 ottobre 2021, e dal 7 gennaio è disponibile su Amazon Prime Video. La volontà del regista pare quella di proporre una riflessione su quanto ci sia di comune tra la vita di un secondino e di un ergastolano, cosa resa possibile in un confronto intimo tra i membri rimasti del personale di polizia penitenziaria che lavora nel fittizio carcere di Mortana, in dismissione, e i 12 carcerati bloccati da “questioni burocratiche”, e dunque in attesa di un trasferimento. Nel frattempo tutti dovranno convivere all’interno del carcere, in una situazione difficile da gestire, senza personale base e quindi senza risorse, con il forte rischio che una rivolta scoppi da un momento all’altro.

Il carcere di Mortana: dove tutto si ferma

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La situazione ha dell’assurdo. Dopo aver festeggiato per la chiusura del carcere, che si trova verosimilmente nell’arroccato entroterra sardo, la squadra capeggiata da Gargiulo apprende dalla direttrice del carcere (unico ruolo femminile) che dovrà far fronte comune per temporeggiare in attesa che il trasferimento di alcuni carcerati, bloccati da un tortuoso iter burocratico, avvenga, lasciandoli liberi di abbandonare la struttura, che comunica decadenza e dramma nelle immagini in bianco e nero mostrate nello stacco da una notte all’altra, andando a ricreare una lugubre visione ai limiti dell’onirico di un luogo che negli anni ne ha, senz’altro, viste di tutti i colori. Il tempo si ferma in tutti i sensi, sia perché la situazione si fa sempre più scomoda e sembra spesso di essere sul punto di una rivolta indomabile, sia perché la data del trasferimento è ignota, e nessuno ha la minima idea di quanto ci vorrà prima che tutto si concluda. L’unica certezza per i secondini è che bisogna cercare di mantenere lo status quo, in qualunque modo. Non bastasse la clausura, in modo tale da poter tenere i pochi superstiti sotto controllo regolarmente, questi vengono spostati in un padiglione unico, concentrico, che esprime ancora meglio il senso di claustrofobia perpetua vissuto da tutti i personaggi. Perché per quanto Gargiulo, almeno a parole, si rifiuti di ammetterlo, all’interno della vita di un carcere non c’è distinzione tra prigionieri e poliziotti, perché tutti sono rinchiusi, conducono una vita abitudinaria ed alienante e a tutti non resta solo che attendere un destino migliore.

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E’ solo quando il giovane Fantaccini si aggiunge ai 12, in attesa di un processo, che viene fuori tutto il lato umano del condannato. Il ragazzo fa dentro e fuori di prigione da parecchio tempo, tanto che ormai è conosciuto dai secondini, che quasi provano pietà per la sua condizione. Questa volta potrebbe averla fatta grossa perché l’anziana vittima del suo scippo è in fin di vita, tanto da portare il giovane sull’orlo del baratro, pronto a compiere un gesto estremo, sventato dal pronto intervento di Gargiulo e Lagioia, con quest’ultimo che lo prende sotto la sua ala protettiva, dimostrando una comprensione assolutamente inaspettata. Lagioia sta per finire di scontare la sua pena, e se è pur vero che creare problemi nella sua posizione sarebbe assolutamente deleterio, è innegabile che questi rappresenti una speranza, una piccola luce in lontananza nell’oscurità della redenzione. Nell’ecosistema del carcere di Mortana i detenuti che ci vengono presentati sembrano tutt’altro che pericolosi. Si è creata una coesione, sia negli intenti che nell’appartenenza, tra un gruppo di individui che, per motivi che non ci vengono mai espressamente rivelati, si ritrovano in una situazione che più che agitarli e fomentarli li tranquillizza, perché per loro tutto questo somiglia più ad un accenno di umanità, e forse sta proprio qui la reale differenza tra le due parti in causa, nel modo di leggere una situazione così rocambolesca. Un’umanità che culmina nella scena madre di Ariaferma, quando manca la luce in tutto il carcere, all’ora di cena, e i secondini sono costretti a illuminare manualmente un improvvisato banchetto tra carcerati. La scena è umanamente straordinaria perché lascia trasparire in ogni minimo dettaglio tutta la forza della semplicità di un gruppo di uomini, che prima di essere criminali sono esseri umani, riunito per celebrare fortunosamente un rarissimo momento di quotidianità. 

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I due estremi di Ariaferma

L’ennesima conferma di due mattatori: Toni Servillo e Silvio Orlando

A livello attoriale Ariaferma è portato avanti dalla caparbietà di Silvio Orlando (che interpreta il boss Carmine Lagioia) e Toni Servillo, autentici mattatori su tutta la scena. I due estremi di una catena inevitabilmente coesa, con una concezione di vita e di giustizia diametralmente opposte ma che in uno scenario così drammatico risultano essere vicinissime. La rivolta bussa alla porta quando i carcerati si stufano del cibo precotto servitogli, rifiutandosi di mangiarlo. Lagioia si propone come cuoco, e da qui nasce la sua collaborazione con Gargiulo, che manifesta la propria integrità prendendosi tutte le responsabilità sulla decisione, dato che permetterà ad un pericoloso criminale di avere accesso a coltelli da carne e quant’altro, suscitando infatti la perplessità generale del corpo di polizia. Il mood di Ariaferma è molto riflessivo, silenzioso. Lascia lo spettatore ad interrogarsi su quanto una condizione simile possa rivelarsi dannosa e pericolosa, perché la ribellione sembra sempre sul punto di esplodere. E’ dunque un film in cui l’attesa la fa da padrone e si pone come tematica centrale, con una temporalità che scorre pesante, senza far capire quanto tempo effettivamente passi, potrebbero essere lì dentro da giorni, oppure mesi, e potrebbero restarci per anni, ma l’aria si ferma e congela le speranze dell’uomo, che non può fare altro che adattarsi e mettere da parte l’ostilità.

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