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In House of the Dragon manca solo una cosa, per ora: l’ironia

ATTENZIONE: l’articolo che stai per leggere potrebbe contenere spoiler sui primi episodi di House of the Dragon!!

Le lamelle d’acciaio impiantate nel cuore del Continente occidentale sono finalmente tornate a vibrare. L’imponente allestimento di Westeros ha riaperto i suoi battenti. Le note di Ramin Djawadi hanno ripreso a suonare, incidendo la pietra dura e spessa dei Sette Regni con le effigi della casa Targaryen, tanto gloriosa quanto dannata. La ruota è tornata a girare, grazie agli dei. Calpestando tutto, come al solito. Ma anche rimettendo in moto l’intero convoglio che, da Game of Thrones in poi, non si è mai più fermato. G.R.R. Martin e Ryan Condal hanno riacceso la scintilla, gettato nuova carne al fuoco, riattizzato i carboni roventi dello sterminato mondo del ghiaccio e del fuoco, riportandoci coi piedi esattamente lì dove ci eravamo congedati, tra amarezza, delusione e rimpianto. House of the Dragon si è imposto con prepotenza, ripagando la HBO degli sforzi già dai primissimi episodi. Il prequel di Game of Thrones, ambientato centosettanta anni prima delle vicende narrate nella serie madre, non teme la pesante eredità che è costretto a impugnare. Al contrario, viaggia con naturalezza, si incanala nei solchi lasciati aperti e si appresta a correre e irrigare le cavità inesplorate della storia antica di Westeros con esuberanza ed irrequietezza.

Siamo tornati al centro di un mondo di cui distinguiamo perfettamente i contorni e le sagome.

House of the Dragon

La pietra pulsante del Continente occidentale, le mura imponenti della Fortezza Rossa, la Sala del Trono ancora così austera e inaccessibile: le coordinate entro le quali ci muoviamo sono familiari, il resto è energia che scorre e che ancora non sappiamo dove andrà a riversarsi. House of the Dragon è una costola dello sterminato mondo di Game of Thrones, ma è pur sempre intrisa del suo stesso raggelante fascino: con lei sono tornate le lotte per il potere, le macchinazioni dei potenti e le contromisure degli stabilizzatori. Sono tornati i venti di guerra e le contrapposizioni tra pari, i re in declino e i principi in ascesa. È tornata la guerra ed è tornata la politica, sono tornate le spade e i draghi, i guerrieri e i manovratori, gli inganni e le insidie, il clangore delle lame e gli echi delle battaglie. Tutto nel solo posto in cui politica, storia, fantasy e guerra trovano la loro sintesi ineguagliabile: il mondo del Ghiaccio e del Fuoco. E però non bisogna commettere l’errore di legare troppo questa serie al ventre già dilapidato di Game of Thrones. La nuova House of the Dragon è un prodotto a sé stante, che andrebbe messo al riparo da confronti e paragoni imprescindibili, lasciato libero di trovare da sé il suo punto di maturazione – che, a giudicare dai primi due episodi della serie, non è lontano dal venire -.

Quel che abbiamo visto finora ci ha soddisfatti. Eravamo bocche asciutte la cui brama di liquidi (e del sapore incantatore della nostalgia) è stata temporaneamente appagata. Il ritmo delle prime due puntate di House of the Dragon (qui trovate le recensioni al primo e al secondo episodio) è riuscito a gettarci immediatamente nel turbine: azione, sangue e politica sembrano essere i piloni su cui erigere, un pezzo per volta, la grande impalcatura della guerra fratricida che sconvolse la dinastia Targaryen due secoli prima della nascita di Daenerys. La penna di Martin scalfisce e cuce, ogni storia va guardata da differenti angoli di visuale. Viene meno la coralità confusionaria con cui le prime stagioni di Game of Thrones ci avevano introdotto nei Sette Regni, ma anche il fluire di House of the Dragon è contorto e intricato, le sue trame sfilacciate e ricompattate più volte, il suo universo pieno di spifferi e correnti d’aria nelle quali si infilano le intuizioni e la grande creatività di Martin e dei suoi collaboratori.

House of the Dragon è una serie che potrebbe regalarci grandi soddisfazioni.

I suoi personaggi – tragici, sventurati, complessi – legheranno il proprio destino alle scelte future. La guerra sembra imminente e non più rinviabile, il trono è debole, il re afflitto, il principe scalpitante e i suoi seguaci assetati di sangue. In Daemon Targaryen (Matt Smith) sono ben visibili i tratti della lucida follia che ha animato, in modi e quantità diverse, altri personaggi straordinari del mondo di Game of Thrones. Il principe è inquieto e smanioso, taciturno e violento, pronto a reclamare ciò che ai secondogeniti viene negato dalla nascita: il trono e una corona sopra la testa. Viserys I (Paddy Considine) è invece un sovrano sofferente e fiacco. Il potere lo ferisce e lo incupisce, l’assenza di un erede maschio e il terribile sacrificio dell’amata consorte lo hanno invecchiato e debilitato. Le sue scelte peseranno senz’altro sulla traballante impalcatura dei legami di potere, stabili finché la strada è dritta e non si incontrano bivi. Rhaenyra (Emma D’Arcy) è l’erede non scelto, l’opzione scartata finché divenuta inevitabile, la ragazza destinata a un trono sul quale nessuna donna ha mai poggiato le natiche. Ogni personaggio, ogni piccolo risvolto che abbiamo fin qui potuto osservare, spalanca le porte a una trama che ci lascerà inchiodati davanti alla tv per tutto il tempo che House of the Dragon vorrà accompagnarci.

Sembra tutto molto bello, tutto piuttosto avvincente.

La scenografia spettrale di Roccia del Drago, le ali di Syrax che bucano la coltre di nebbia nella quale è avvolta la roccaforte dei Targaryen, il passo regale della principessa Rhaenyra che sfida convenzioni e tradizioni, i primi scossoni all’interno del Consiglio del Re, promettono una prima stagione appassionante e impetuosa. La grande assente di House of the Dragon, almeno per il momento, è invece l’ironia. Quell’umorismo sferzante e vispo che ha bilanciato l’epicità delle otto stagioni di Game of Thrones sembra mancare quasi del tutto nello spinoff sui Targaryen. La linea ironica, magnificamente interpretata in Got da personaggi come Tyrion, Bronn, i fratelli Lannister, Olenna Tyrell e tantissimi altri, può essere utile a compensare un certo eccesso di realismo e drammaticità che, senza una nota più sarcastica e irriverente, rischia di far perdere qualcosa all’intero prodotto. Gli istinti più violenti di un personaggio come Daemon, le riflessioni cupe di un sovrano come Viserys, la regalità che contraddistingue la principessa Rhaenyra o le sottigliezze con cui si fa largo un suddito scaltro come Otto Hightower, avrebbero potuto trovare una mitigazione – e un ulteriore slancio – abbandonandosi a un atteggiamento meno austero e compassato. Martin ha già dimostrato di saper usare l’ironia come uno strumento più affilato di una lama e più penetrante dell’acciaio di Valyria. In questi primi due episodi però, quel tocco di vivace genialità che permea gran parte delle stagioni di Game of Thrones non sembra neppure accennato. La strada verso la quale ci siamo incamminati è quella del grande epos e della drammaticità, perfettamente resa anche a livello scenografico. Ma non è detto che i prossimi episodi di House of the Dragon non possano sbalordirci anche in questo senso, recuperando un certo sarcasmo di cui, pur in questa manciata di episodi, sentiamo un po’ la mancanza.

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