Prosegue ininterrotta la ventata true crime portata avanti da Netflix, a partire da Dahmer di cui abbiamo già discusso ampiamente. Con The Good Nurse, uscito in piattaforma il 26 ottobre, il pathos rimane alto e con esso le aspettative degli amanti del genere. Un film che sta letteralmente facendo impazzare il web e non solo. Al centro del film c’è la storia vera dell’infermiere killer Charlie Cullen, interpretato da un perfetto Eddie Redmayne, accusato di aver ucciso (senza mai toccarli con un dito) più di 40 pazienti tramite l’iniezione di sostanze fatali nelle flebo dei pazienti, tra cui insulina e farmaci per il cuore.
Nonostante il numero accertato delle vittime del cosiddetto “infermiere killer” sia di 40, gli investigatori sono propensi a ritenere che tra il 1987 e il 2003, Charles Cullen abbia portato al decesso (o a repentini peggioramenti) più di 400 pazienti in ben otto diversi ospedali americani tra il New Jersey e la Pennsylvania. Non siamo ancora a conoscenza del motivo che lo spinse a compiere questi omicidi, alcuni lo ritengono un sociopatico, altri semplicemente malvagio. Ad oggi sta scontando 18 ergastoli senza diritto alla libertà condizionale fino al 2409.
The Good Nurse e la banalità del male
In attesa del documentario “Infermiere Killer”, che uscirà su Netflix l’11 novembre, possiamo già trarre alcune conclusioni. Quello che più mi lascia interdetta è l’aver appurato quanto sia banale il male, nella misura in cui tutti i crimini, compresi quelli più efferati, non abbiano una spiegazione. Ciò terrorizza e allo stesso tempo può far riflettere.
Charles Cullen, qui splendidamente recitato per la prima volta nel ruolo di cattivo da Eddie Redmayne, è una persona semplice e all’apparenza buona di cuore, sempre pronta ad aiutare gli amici. In questo specifico caso, ruolo importante viene affidato a Jessica Chastain, che rappresenta Amy, infermiera affetta da cardiomiopatia (coaguli di sangue nel cuore), così legata a Charles da fargli confessare gli omicidi senza riuscire a capire il motivo per cui questi sono stati compiuti.
Il film ripercorre gli anni di attività di Cullen, seppur per ovvi motivi in maniera approssimativa, e riesce a farci capire il modus operandi del killer: iniettare in maniera sadica quanto subdola sostanze all’interno delle flebo, in modo da uccidere i pazienti di una morte lenta e dolorosa. Le vittime avrebbero impiegato da ore a giorni prima di morire. Ai fini di una corretta diagnosi venne riesumato il corpo di Kelly, una delle ultime vittime di Cullen, madre di una bambina di soli 6 mesi.
I Can’t – Non Posso
Gli atti finali del film, pressappoco gli ultimi 20 minuti, sono sicuramente i più agghiaccianti e allo stesso tempo anche i più emotivamente forti. Una volta nella stanza degli interrogatori, dopo essere stato incalzato con le domande dagli investigatori, Charles in un crescendo di tensione inizia a ripetere ripetutamente “I Can’t”, “Non Posso”, per intendere che non può esplicitare il motivo dei suoi gesti e non può neanche parlare, come se la sua stessa identità negasse gli atti brutali compiuti negli anni.
Charles non sa, o non vuole dire il motivo? Questo non ci è dato saperlo, e viene anche difficile immaginare le motivazioni intrinseche ai suoi gesti. All’interno del film pare abbia due figlie e una moglie, ma questo è solo un espediente narrativo. In realtà, sappiamo che il vero Charles soffrì di depressione dopo la morte di entrambi i genitori, quando ancora era molto piccolo, e questo sicuramente segnò la sua mente deviata.
The Good Nurse è soprattutto una storia di dolore
Al di là della storia vera che si cela dietro al film, quello su cui Tobias Lindholm ha puntato è la potenza che si cela dietro ad una performance, in questo caso dietro alla potenza attoriale di due grandi attori, che hanno saputo restituirci per intero l’immagine della complessità della psiche umana. Da un lato abbiamo il protagonista negativo, il male rappresentato da un Eddie Redmayne; dall’altro lato abbiamo il protagonista positivo, il bene rappresentato da Jessica Chastain.
In questo senso il film è una storia di dolore. Il dolore di una famiglia, quella di Amy, che si fa portavoce del dolore che si tocca con mano in sala operatoria e nei corridoi dell’ospedale. Una tristezza che percepiamo vedendo i volti delle persone a cui viene riferito che il famigliare è deceduto e lentamente la gioia di vivere scompare. Vediamo e sentiamo la fiamma negli occhi di chi resta che si spegne. Questa è la potenza del film di Lindholm, che non sarà un capolavoro. Ma è un film vero, reale.