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Il cacciatore – Il buco narrativo che ci fa capire il senso del film

Appena qualche settimana fa tornava al cinema in versione restaurata Il cacciatore, uno dei capolavori meno in vista nella storia del cinema e nella filmografia di De Niro. Lo potremmo definire un film sulla guerra del Vietnam senza guerra del Vietnam in cui il focus del racconto è tutto sui suoi straordinari protagonisti e in particolare sulla figura di Michael, interpretato appunto da Robert De Niro. La trama è presto detta: un gruppo di amici riceve la chiamata per la guerra del Vietnam ed è costretto ad abbandonare casa, famiglie e affetti confortanti (leggi: pub e birre). Tutto cambia. Per sempre. Irrimediabilmente.

Più che un film sul Vietnam Il cacciatore è stato etichettato, giustamente, film sul disturbo post-traumatico.

Mike, Nick e Steven, i tre che partono per la guerra, non saranno più gli stessi, irrimediabilmente toccati dagli eventi vissuti, dall’orrore del conflitto. De Niro fa l’ennesima interpretazione della vita. Veniva da Taxi Driver, di due anni precedente a Il cacciatore. Veniva insomma da un capolavoro che lo aveva consacrato agli occhi di pubblico e critica. Cimino, il regista, vede in lui il protagonista perfetto per il suo testamento artistico. E non sbaglia. L’attore riesce a restituire tutta la complessità del personaggio di Michael. Il suo incerto equilibro, la psiche altalenante, il disagio sociale appena espresso ma distintamente percepibile (in particolare nel rapporto con Linda).

The deer hunter
(640×360)

Michael, il cacciatore, prova a tenere insieme tutti quanti, prova a tornare a vivere e prova a far tornare a vivere. Ma non ci riesce, non può riuscirci. Cimino ci mette di fronte all’irreparabilità della guerra, all’impossibilità di porre rimedio a un orrore troppo grande. E lo fa con una maestria registica senza precedenti. Lo fa con un buco narrativo che vale l’intero film.

Ma partiamo anzitutto dal contorno. Da un’atmosfera che è costantemente alticcia, ebbra di confusa allegria in tutto il primo terzo di film, di sola confusione e smarrimento nella seconda parte. Non sembra mai esserci una scena di lucidità, in cui la telecamera non si ubriachi e sfochi le immagini che descrive. In una delle prime scene gli amici si trovano riuniti in un pub ed esplode tutta la loro gioia giovanile, la coesione dell’amicizia, la goliardica leggerezza dell’innocenza. A questa farà da drammatico contraltare, alla fine del film, la mesta e dolorosa seriosità di quegli amici che si ritrovano allo stesso pub, intonando un canto di parodico patriottismo, carico in realtà di rabbia, dolore e rimpianto.

Nel mezzo, però, l’atmosfera mantiene questo senso di ebbrezza.

Si passa rapidamente dallo stordimento nel pub alla gioia del matrimonio e nuovamente alla scorpacciata di birre e spensieratezza. Sembra quasi che l’alcol che trasuda in ogni scena sia il trucco anestetizzante con cui i protagonisti allontanano da sé la paura della chiamata alle armi. La paura dell’orrore. Quell’orrore che ancora non possono comprendere, vedere, aspettarsi ma che pure, inconsciamente, temono già.

Il cacciatore
Il cacciatore, scena del matrimonio (640×360)

Gli unici momenti di lucidità sono quelli che danno il titolo al film, i momenti in cui il protagonista va a caccia con i suoi amici e in particolare con Nick, con il quale ha un legame esistenziale unico. Entrambi condividono lo stesso amore per Linda ma soprattutto condividono quella sensibilità unica alle cose e alla vita che li convince che sparare più di un colpo al cervo cacciato non sarebbe leale.

Sei il solo con il quale vado a caccia volentieri. Mi piace perché hai qualcosa dentro. Io non vado a caccia con gli stronzi!

Al bosco riconoscono una sacralità con cui due anime così sensibili come Mike e Nick entrano facilmente in comunione (“Mi piace come sono gli alberi sulle montagne, sono… diversi… Come sono gli alberi…“). Mike è convinto del principio di lealtà, afferma che “Uccidere o morire in montagna o nel Vietnam è esattamente la stessa cosa ma deve succedere lealmente“. Non ha idea che quello che troverà in Vietnam sarà tutto fuorché la sua visione leale e cavalleresca della guerra. Se Nick sente dentro di sé la paura, Mike vive ancora l’illusione. In Vietnam però, dovrà aprire gli occhi. Troverà porci che mangiano cadaveri, civili brutalmente fucilati da soldati della stessa nazionalità e giochi mortali in pieno spregio alla vita.

Ma arriviamo al buco di trama.

L’atmosfera ebbra, intervallata solo dalla sacra, profonda lucidità della caccia in montagna, riprende anche dopo la partenza per il Vietnam. Ma è un’ebbrezza molto diversa. Non più scanzonata e spensierata ma tragica e scioccante. La telecamera è sempre lì, opaca, fissa, sfocata pure la visione e però non ci sono più i canti e la gioia ma le urla e la disumanità. A questo punto, catapultati come siamo proprio nel mezzo del conflitto non ci rendiamo immediatamente conto che c’è stato una clamorosa ellissi temporale. È passato diverso tempo. Ma tra la scena del pub e la prima immagine del Vietnam non c’è che un battito di ciglia e un suono d’elicottero che inizia già, incombente presagio dell’imminente partenza per il fronte, nel pub stesso continuando poi nelle immagini del Vietnam e legando le due scene.

Ellissi
Il cacciatore, scena in Vietnam con Mike che brucia vivo un viet-cong (640×360)

Questa elissi temporale che ci sballottola in piena guerra con un Mike già perfettamente padrone della scena spiega il senso di tutto il film. Mike è in trance: in nome dei suoi principi di lealtà, smette di fingersi morto, si rialza e uccide un viet-cong per salvare un’inerme civile. Sarà l’unico momento di guerra vera. Per il resto della pellicola, pur mostrando indirettamente la brutalità dello scontro, lo sguardo si focalizzerà su Mike e Nick. E sui risvolti che la guerra ha su di loro. Il senso di quest’ellissi che esclude l’arrivo in Vietnam, le operazioni armate, gli scontri a fuoco e ogni battaglia, va ricercata nel valore che Cimino attribuisce alla sua opera.

Il Cacciatore non come film di guerra ma film sui risvolti della guerra.

Un film sul riflesso che la guerra ha sull’uomo, sulla sua psiche, sulla capacità di preservare umanità. Nei protagonisti si succedono rabbia, sconforto, pianto, dissociazione dalla realtà (tale che li porta a non riconoscersi l’un l’altro) e soprattutto la consapevolezza di non poter cambiare quanto è stato né lasciarselo alle spalle. La soluzione è nascondersi e rifiutarsi di tornare a vivere come fa Steven. Perpetrare il macabro gioco della roulette russa, riattualizzare quindi il trauma, come fa Nick. Oppure provare a dimenticare, a tornare alla normalità, costruirsi una famiglia, come vorrebbe fare Mike senza però riuscirci.

La guerra tout court è fuori dalle scene. È là, in quell’ellissi, in quel buco narrativo che esclude ogni immagine di troppo rispetto al focus del racconto. In quel buco che allontana Il Cacciatore dall’essere un film di guerra e lo rende straordinariamente, drammaticamente un film sull’uomo.