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C’è ancora domani – La Recensione: la rivalsa del grande cinema italiano

Stupore. È questa l’emozione che si prova durante le prime scene di C’è ancora domani, il capolavoro firmato Paola Cortellesi. Ammetto di essere partita con lo scetticismo che contraddistingue ogni mio approccio (sbagliato) alla cinematografia italiana, ma questa volta mi sono data l’opportunità di stupirmi, e questo film è riuscito in questa impresa alla grande.

Si tratta di una pellicola ambientata nel passato, ma che in fondo non ha mai concluso il suo arco narrativo, espandendosi a un contesto attuale che è più evidente che mai. Con un incasso che va oltre i 15 milioni e la distribuzione in diversi paesi del globo, la Cortellesi riporta i prevenuti al cinema. E dunque voglio aprire questo articolo con una domanda alla quale daremo risposta alla fine: “ma il cinema italiano è davvero morto?”.

C’è ancora domani, ambientato ieri, ma attuale oggi

C'è ancora domani
C’è ancora domani (640×360)

Il film si apre con una scelta registica particolare, ovvero il formato 4:3 in bianco e nero, ampiamente utilizzato nei primi decenni della storia del cinema e della televisione, una decisione che ci illude immediatamente di star guardando una vicenda che si è svolta nel passato, trovandoci comunque nel 1946, post Seconda Guerra Mondiale. La Cortellesi però ci lancia immediatamente il primo messaggio, che ahimè parte del pubblico potrebbe non aver notato. Senza particolari dichiarazioni in sceneggiatura, il formato si espande all’attuale 16:9, come ad annunciare alla platea che questa è in realtà una storia più attuale che mai.

Il tema cardine è presentato nei primi frames, che non hanno bisogno di dialoghi perché il suono dello schiaffo sulla guancia di Delia, la protagonista, chiarisce fin da subito il profondo disagio e la colpevolezza che proveremo durante tutta la visione. L’intero plot gira dunque intorno alla protagonista, Delia, e alla sua apparente lotta passiva e silenziosa per liberarsi dalla sua condizione di subalternità e sottomissione. Il fidanzamento di sua figlia Marcella con Giulio, membro di una famiglia benestante, mette in moto una serie di eventi che portano Delia a reagire contro la perpetuazione di un ciclo di violenza e sfruttamento familiare.

Quando la regia e la sceneggiatura fanno la differenza

C'è ancora domani
C’è ancora domani (640×360)

C’è ancora domani non è un film che ci parla di qualcosa di mai visto, soprattutto nell’ultimo decennio il tema della violenza sulle donne è stato trattato esplorando ogni sfaccettatura di questa terribile condizione. Tuttavia, ciò che differenzia questa produzione dalle precedenti di case anche estere è la sua particolarissima scrittura. Poco fa vi parlavo del senso di colpevolezza che si prova in sala, frutto della saccente decisione delle 3 menti dietro la scrittura di un plot che prima ci fa ridere, poi ci fa rabbrividire e talvolta chiudere gli occhi.

La ballata della violenza è accompagnata dalle più belle canzoni della musica italiana, che vogliamo ascoltare ma non guardare. Più di una volta la tentazione di chiudere gli occhi è forte e porta inevitabilmente a riflettere sulla scelta di molti, comprese le vittime, di non voler vedere la realtà, di scegliere il silenzio. La Cortellesi, insieme a Furio Andreotti e Giulia Calenda, scrivono una sceneggiatura a tratti comica ma che riesce a portare a riflessioni profonde, stupendoci poi sul finale con il classico effetto dell’aringa rossa. Per i meno cinefili: colpo di scena. Il film, infatti, si sviluppa verso un finale che sembra più scontato che mai, puntando a un acme che non solo scaturisce ansia nei confronti della protagonista, ma che ci fa pensare al classico finale (passatemi il termine) all’italiana. Tuttavia non solo non è così, ma ogni tassello della storia, compreso il ciclo di caratterizzazione dei personaggi, si chiude alla perfezione. Pensiamo anche solo a William, il soldato afroamericano, che inizialmente rappresenta un alleato e un simbolo di diversità e cambiamento in un contesto sociale in trasformazione, ma poi assume un ruolo cruciale liberando Marcella da un futuro visto e rivisto e terrificante.

C’è ancora domani e la sua enorme aringa rossa

C’è ancora domani (640×360)

Chi ha visto il film in sala (e se non lo avete fatto, correte a farlo) sarà sicuramente rimasto scioccato dal finale. Di fatto, l’aringa rossa non è nient’altro che un depistaggio per indicare un diversivo, un argomento fuori tema che distrae il pubblico dall’idea originale, inducendolo a trarre conclusioni sbagliate. 

Quasi immediatamente conosciamo Nino, e tutte le indicazioni che ci vengono fornite suggeriscono l’epilogo in cui Delia, raccolti i soldi e preparata la borsa e rossetto, si accinge alla sua fuga romantica. Per quasi tutto il film siamo combattuti, quasi quanto lei, nel volerla vedere fuggire con Nino e il dubbio sull’abbandono dei figli. Delia si trova incastrata in un loop infinito di abusi fisici e psicologi: giustifica il marito, subisce in silenzio una quotidianità che ormai è diventata la sua normalità. I figli piccoli hanno assimilato la violenza nello stuzzicarsi reciprocamente a spintoni e parolacce, mentre Marcella, che combatte contro la volontà della madre di accettare le violenze, si ritrova senza accorgersene nello stesso identico buco nero.

Non era dunque la fuga d’amore la rivalsa che si prende la protagonista, e tutti i depistaggi con il senno di poi appaiono anche palesemente artificiosi, ma la cosa incredibile è che funzionano. Il trick ending funziona così bene che dobbiamo aspettare i manifesti e le voci fuori campo per renderci conto che questa non è una storia di violenza e d’amore con happy ending (qui trovi un altro film dalla narrazione filmica molto particolare).

Il finale aperto e senza happy ending

C’è ancora domani (640×360)

C’è ancora domani non ha una conclusione e può essere interpretato in diversi modi. Delia, grazie a Marcella che le porta la tessera, si reca alle urne per votare tra monarchia e repubblica ed eleggere l‘Assemblea costituente. Un finale felice si potrebbe pensare, eppure è inevitabile pensare al dopo, a quello che sarebbe successo alla protagonista una volta tornata a casa.

La Cortellesi però non vuole soffermarsi sulle conseguenze, di fatto la paura di esse è proprio ciò che ha bloccato la sua determinazione, la voglia di cambiare le cose e la sua tragica condizione. In questo schermo cinematografico di caricature, la regista vuole dare il suo messaggio, ma lasciare allo spettatore la capacità di rilettura del film. E dunque mi trovo a rispondere alla domanda che ci siamo posti a inizio articolo: “Ma il cinema italiano è morto?“. A questa domanda non ho ancora una risposta chiara, ma se il cinema italiano è quello di C’è ancora domani della Cortellesi, allora credo proprio di no.