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Evitare di deluderci non era facile, ma Boris ce l’ha fatta ancora una volta

Sono passati dodici anni dalla conclusione della terza stagione di Boris. Da quel memorabile discorso di Antonio Lopez che rivela l’impossibilità di rivoluzionare la fiction italiana, bocciando inesorabilmente l’esperimento di Medical Dimension. E da quell’amara delusione di René Ferretti che vede infrangersi il sogno di girare una serie di qualità, riproponendo gli Occhi del Cuore 3 che si tinge di locura. “Una trappola della Rete“, come sostiene Lopez. Sì, perché in Italia “una fiction diversa non solo è impossibile, ma nemmeno è augurabile“.

Andata in onda su Fox dal 2007 al 2011, Boris chiude il sipario con tre stagioni ineguagliabili e sancisce l’incapacità, o meglio il disinteresse, di un intero comparto televisivo di rinnovarsi. Un messaggio, quello dei tre autori, carico di amarezza e irriverenza verso un sistema che deve rimanere necessariamente così come è. È in quel momento che Boris termina la sua narrazione – ma anche la sua funzione – di satira verso un’Italia che non può e non vuole cambiare. Dove tutto rimane statico. Per cui nulla più, può essere raccontato. Dobbiamo aspettare un decennio, prima di intravedere qualche piccola alterazione nel sistema e, finalmente, poter riabbracciare Boris. In un arco temporale che vede l’affermazione dei social come nuovo mezzo di interazione sociale, la mutevolezza nei gusti e nelle tendenze delle nuove generazioni e infine, l’avvento delle piattaforme streaming che rompono con i vecchi schemi televisivi, coinvolgendo inevitabilmente anche le produzioni italiane.

È In questo contesto che si inserisce Boris 4. Non compare “così, de botto, senza senso”, come potrebbe sembrare a qualcuno. Ma il suo ritorno è ponderato e avviene nel momento opportuno.

Cioè, quando si intravede la possibilità di raccontare qualcosa di nuovo. Tenendo presente, però, una condizione necessaria: con il passare del tempo si cresce e si invecchia. Così, ad ottobre 2022 la serie si fa riabbracciare per la quarta volta sotto una forma diversa, estremamente matura e rispettosa. Perché non solo trova la possibilità di fare satira a un mondo che sta sperimentando cambiamenti, ma soprattutto soffre e piange la morte del suo stesso sceneggiatore Mattia Torre, passato a miglior vita nell’estate del 2019. Una sofferenza condivisa che si racchiude tutta nella lacrima di Duccio, fermo nella sua roulotte a pensare tristemente alla morte di Itala. Una lacrima ironica e poetica al tempo stesso, attraverso la quale gli sceneggiatori Vendruscolo e Ciarrapico esprimono tutto il loro bisogno di tornare a raccontare, forse per l’ultima volta, questa storia. Per immortalare per sempre l’amico collega scomparso.

Lopez, René, Arianna in Boris
Lopez, René, Arianna in Boris

Trasmessa su Disney+, questa volta la troupe di René Ferretti si riunisce per girare la Vita di Gesù, dove Stanis è protagonista e produttore della serie con la sua SNIP (So Not Italian Production) e Corinna, divenuta sua moglie, è naturalmente la Vergine Maria. Anche Lopez, ormai in pensione, si reinventa produttore e fonda la QQQ (Qualità Qualità Qualità), finanziata dai loschi affari della ‘ndrangheta calabrese. La stesura della serie è affidata ai soliti sceneggiatori, supervisionati da Alessandro che nel frattempo, diventa il commissionario della piattaforma americana in Italia. Alla fotografia c’è sempre il Maestro Duccio Patanè, qui coadiuvato da un Lorenzo de-schiavizzato. Biascica è capo elettricista e Alfredo è capo della Seconda Unità. Infine, non può mancare l’aiuto di Arianna al regista René.

Tutto al suo posto. Qualche avanzamento di carriera per alcuni sì, ma le personalità e i feticismi di ognuno rimangono lì invariati. Anche l’idea di girare la Vita di Gesù pare un ottimo affare. Una serie universale adatta al variegato pubblico della piattaforma. Tutto perfetto, dunque. Se non fosse che manca ancora il lock e il benestare dell’algoritmo sulle prime puntate. Già, perché non ci sono più le trappole e le stravaganze della Rete e del Dottor Cane, il capo indiscusso della fiction italiana, ma ora c’è da soddisfare lo score di un misterioso e spietato algoritmo.

L’algoritmo è l’antagonista della serie, una macchina di verdetti e sentenze che detta le regole della produzione.

Un’entità astratta, meccanica, indefinita. Stare al gioco dell’algoritmo significa problemi: snaturare la sceneggiatura, seguire il politically correct, aggiungere trame teen alla storia, trovare comparse di varie etnie. Vuol dire zero parolacce, bestemmie, botte, insulti sul set. Pena l’esclusione dalla piattaforma o il declassamento alla Seconda Unità di riprese – povero Biascica per essersi scaccolato gli occhi. Significa anche partecipare alle call e interloquire in inglese con i manager della piattaforma sparsi per il mondo, che spingono all’apertura di profili TikTok e all’inclusivity e diversity. Una satira alla globalizzazione narrativa e cinematografica che appiattisce anche i dialetti nostrani. Per cui le comparse palestinesi dal dialetto calabrese diventano ossigeno in mezzo a tutti quegli inglesismi. Nonostante le aspettative fossero altissime, la quarta stagione di Boris riesce a non deludere e a mettere d’accordo tutti, alla fine: i nostalgici, che pur di rivedere René e la sua troupe “va bene tutto”, gli scettici contrari all’uscita – per giunta su Disney+ – perché troppo fedeli alle prime stagioni.

Boris 4 ce la fa grazie a una scrittura equilibrata. Da un lato, è autocitazionista e riallaccia i fili con il passato. Ripropone, infatti, molte delle gag bizzarre e fuori dalle righe delle prime stagioni e rievoca quel linguaggio espressivo ormai cristallizzato nell’immaginario collettivo. Dall’altro, mette bene in luce gli equivoci e paradossi dell’inedito universo delle piattaforme streaming. Dai codici etici da rispettare, ai nuovi intrecci teen e friendly. Un mix di vecchio e nuovo che si fonde per ironizzare sulle attuali dinamiche delle produzioni americane. Un Boris che diventa, quindi, anche parodia di se stesso per il solo fatto di essere distribuito proprio dall’oggetto che prende di mira. Comunque lo fa senza strafare, con il giusto garbo, la giusta finezza. Descrivendo e sbeffeggiando ancora quel modus operandi all’italiana, ancorato al gattopardismo del “tutto deve cambiare perché tutto resti come prima“. Dove i produttori estinguono i debiti con i fondi destinati alle serie tv, dove il sistema è permeabile alle infiltrazioni mafiose, e dove esiste un “orecchio di scena” che viene utilizzato da vent’anni nei set italiani, simbolo dell’immobilismo del paese. Anche Martellone che sogna di essere un attore drammatico alla Gifuni, è destinato a interpretare Zaccheo in chiave comica. E ora, piuttosto che girare alla “ca*** di cane“, si sceglie la via del “O dimo” per risparmiare sul budget: “se una scena è complicata non la famo, ma la dimo“. Perché tanto lo sappiamo “co sta me***, ce semo comprati Spoleto”.

Il ballo di René
Il ballo di René

Ma il ballo di René Ferretti nell’ultimo episodio, sovverte le dinamiche malsane di un’intera struttura e riaccende la speranza di cambiamento

E’ sul finale che Boris raggiunge la sua massima completezza, attraverso una spiazzante e degna conclusione che bacia e benedice anche le tre le stagioni precedenti. Il ballo di René è il guizzo dell’artista che decide di andare controcorrente anche a costo di perdere la faccia. Perché l’algoritmo è una macchina feroce, è vero. Ma è una scimmia senza personalitàun richiamo al Teorema della Scimmia Instancabile. Per questo può essere ingannata, rivoltandole contro i suoi stessi parametri. Su suggerimento di Glauco, René sceglie la via della prensilité: il prendere di qua e di là, prendere per buoni scarti e spezzoni di qualità che andrebbero buttati. Così, è dalle sottotrame teen e dai personaggi da includere che René tira fuori l’asso dalla manica: Io Giuda.

Il regista tradisce tutti, ma non se stesso. Attraverso un balletto che omaggia quello di Flashdance (1983), segue la musica per realizzare il suo sogno. La sua vera anima, il suo istinto, ora da nutrire con fiducia. Una fiducia tramutata negli anni in disillusione, a causa di un sistema paralizzato e paralizzante. Il ballo di René è quindi un inno alla libertà e un atto di amore verso se stesso, verso la sua troupe e più in generale, verso l’intera industria cinematografica e seriale italiana. Un gesto che rompe con il passato per un bene futuro. È Giuda che, tradendo e permettendo a Gesù di compiere il suo destino, libera l’umanità dal male, cambiando per sempre il mondo.

Mattia Torre
Mattia Torre

Ma il ballo di René è, infine, nella sua metafora più alta, un grandissimo omaggio a Mattia Torre, la cui trasposizione in Boris è interpretata da Valerio Aprea. Per tutto il racconto il fantasma dello sceneggiatore aleggia sulla serie e dispensa consigli dall’oltremondo, ma può essere visto e sentito solo dagli altri due colleghi sceneggiatori. Un immagine simbolica, struggente e commovente sin dal primo episodio. Sul finale, si palesa anche a René. È proprio lui, infatti, che suggerisce al regista di seguire la musica. Di osare. Di ballare. Di crederci. In definitiva, di seguire la locura. Quella locura, quella pazzia, quel guizzo da cercare, come succede anche sul finale della terza stagione. La stessa pazzia e coraggio di quel Genio di Mattia Torre di inventarsi, dodici anni fa, una serie che ribalta per sempre i canoni della fiction. Una serie che compare come un fulmine lampante nel grigiume appiattito della televisione italiana. Cambiandola per sempre.

Cambiandoci per sempre.