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Boris – Un omaggio a Lorenzo “lo schiavo”, il figlio vessato di un’Italia minore

Era il 16 aprile del 2007. Sugli schermi di poche migliaia di persone paganti sta per iniziare una nuova serie. La prima serie TV originale prodotta per Fox Internatiomal Channels Italy. Una serie unica nel suo genere che se non ha rivoluzionato il modo di fare televisione nel nostro paese, ha certamente modificato il modo di guardarla. Stiamo ovviamente parlando di Boris, la fuori serie italiana scritta da Luca Vendruscolo, Giacomo Ciarrapico e il compianto Mattia Torre.

Di Boris s’è detto e scritto di tutto. Probabilmente è l’unico prodotto televisivo nostrano sul qual un popolo di santi, poeti e navigatori sia d’accordo: ca-po-la-vo-ro!
Certo, i critici del film e della quarta stagione ci sono. È ovvio, fisiologico che sia così. Alcuni già si lamentarono del calo della qualità nella terza, figuriamoci. In generale, però, la serie nata da un’idea Luca Manzi e Carlo Mazzotta ottiene sempre consensi più che positivi. E quando viene tirata fuori, magari in mezzo a una discussione tra colleghi di lavoro, strappa sempre un sorriso facendo partire l’immancabile gara a chi conosce più battute.

I pregi di Boris sono pressoché infiniti. Anche se ognuno di noi ha le sue idee il perché questa serie piaccia non è un mistero. Regia, montaggio, musiche, dialoghi, recitazione: è tutto di gran qualità. Ciò che forse colpisce maggiormente, però, è l’attenzione al dettaglio, la cura maniacale nei confronti del particolare. Quel particolare così ben descritto che da sfondo risalta in primo piano. Che da comprimario si trasforma in protagonista. Magari anche solo per pochi istanti, per poche battute. Che però lasciano il segno nello spettatore. Il quale, lì per lì, magari nemmeno se ne rende conto. Ma intanto, quell’inezia, ha attecchito e comincia a germogliare. E Lorenzo, questa inezia, la rappresenta in toto.

Boris. Episodio uno: dai, dai, dai!

A conferma di quanto appena detto analizziamo il suo ingresso in scena. Alessandro (Alessandro Tiberi) entra sul set di Occhi del Cuore. Il primo personaggio che incontra è Sergio (Alberto Di Stasio), al telefono, che lo manda elegantemente a fare in
Subito dopo la sigla, nella quale Lorenzo ci viene presentato come lo stagista schiavo, Alessandro si aggira con fare incerto tra le maestranze. L’immagine si alza per inquadrare un ponteggio mobile sul quale sta pigramente appoggiato Biascica (Paolo Calabresi). Sullo sfondo, appollaiato su una scala, praticamente appeso ai riflettori di scena c’è lui. Lorenzo. Non lo si vede bene, è immerso nello sfondo nero. Lo si sente lamentarsi mentre Biascica gli inveisce contro. La regia gli concede qualche frame, senza inquadrarne il volto. Solo qualche istante. Poi più niente.
Alessandro prosegue il suo giro e incontra Arianna (Caterina Guzzanti). L’assistente alla regia gli dà subito alcune dritte mentre si sente un gran frastuono e una voce dolorante che si lamenta. Alessandro è preoccupato, vorrebbe informarsi, prestare soccorso ma Arianna glielo impedisce.

Nella scena successiva Lorenzo compare girato di tre quarti. Alle sue spalle c’è Biascica. I due si guardano. Il primo è terrorizzato. Lo si intuisce dalla testa incassata tra le spalle. È ricurvo su se stesso. Il secondo gli lancia un’occhiata che è un mix di disgusto e disprezzo.
Qualche scena dopo è oggetto di un tiramolla piuttosto violento tra Sergio e Biascica. Il primo lo usa come arma di ricatto nei confronti del secondo, per liquidare l’annosa faccenda degli straordinari di Libeccio.

Come va? Di me**da, come al solito

Carlo De Ruggieri è Lorenzo, in Boris

Occhiali spessi, stempiato, naso importante. Un’aria dismessa, con quel maglioncino a strisce addosso. Questo è Lorenzo, interpretato da Carlo De Ruggieri, in Boris. Un personaggio che sta sullo sfondo ma che entra, subito, in ciascuno di noi. Pur comparendo praticamente più di tutti gli altri in scena ci vogliono otto minuti prima che abbia il suo momento. Quando, cioè, viene avvicinato dal suo collega stagista (di un altro reparto, però).

Alessandro che gli pone qualche domanda. Anche in questo caso il non verbale espresso la dice lunga. Lorenzo si guarda alle spalle, sospettoso. Finge di non ascoltare, cercando di distogliere l’attenzione. Risponde con un sì o con un no, fatti con la testa. Sembra trattenere il respiro, non si concede nulla. Si muove poco, per non attirare l’attenzione su di sé. Alessandro, con la delicatezza dei primi anni Duemila, gli chiede se sia muto. E lui, sussurrando e in fretta, risponde: «mi hanno detto che devo tacere». Non fa in tempo a chiudere la bocca che si sente Biascica berciargli contro: «Muto! Devi stare muto».

Boris. Episodio due: smarmella!

Vessato, umiliato, deriso, Lorenzo è un parafulmine sul quale cadono le peggiori angherie. Ultima ruota del carro, peggio di Alessandro, deve subire un mondo abitato da gente che di lui se ne frega. Può contare solo su se stesso. Ed è proprio contando solo sulle sue forze che riuscirà a emergere, camminando sui corpi esanimi dei suoi compari, meno fortunati di lui. Perché ci vuole fortuna ad avere uno zio senatore, anche se di parte avversa.
Lorenzo è così: intelligente ma non furbo; professionale ma non parac**o. A un pregio che pesa come un macigno non corrisponde un difetto che lo aiuterebbero a far parte della crew. Un paradosso, se si pensa in termini di meritocrazia. La normalità se si frequentano certi ambienti dove c’entrano più le protezioni politiche che i curricula.

Lorenzo, in Boris, è probabilmente il personaggio che più subisce un cambiamento. La sua evoluzione inizia da subito. Il momento preciso è quando dovrebbe dire a Furio (Raffaele Buranelli), l’operatore di macchina, per quale motivo il controllo video non funzioni. Ma non vuole.

Dalla risata alla faccia scura, rancorosa. L’ espressione di Lorenzo cambia in un attimo mentre Alessandro cerca di convincerlo a fare la cosa giusta. No. Lui non vuole. Il perché è facilmente intuibile. Ha l’occasione di lasciare nei guai un collega in difficoltà. La sua, però, non è cattiveria. E nemmeno gli si può applicare il celebre detto mors tua, vita mea. Perché non ci guadagna niente, in sostanza. È, semmai, una ripicca. Infantile, certo. Ma l’unica che conosce. La sola strategia che è in grado di attuare per sfogare la sua frustrazione. Del resto Furio non è un buono. È, come tutti gli altri, pronto a sfoderare la sua violenza, fisica e verbale.

Ma io non faccio testo

Boris
Alessandro, Lorenzo e Biascica nlla scena dell’orata all’acqua pazza

Boris non è una una semplice comedy ambientata sul posto di lavoro. E nemmeno si limita a fare satira prendendo in giro le fiction italiane. Boris è la rappresentazione di un paese, il nostro, e dei suoi abitanti, nel bene (poco) e nel male (tanto). E Lorenzo ne è il degno simbolo. Non è un caso che durante la conferenza stampa per la presentazione del film un gruppo di precari si sia espressamente rivolto ad Alessandro Tiberi e Carlo De Ruggieri chiedendo loro solidarietà per una manifestazione di protesta contro una situazione al limite dello sfruttamento.

Lorenzo rappresenta qualcosa. Un qualcosa che va oltre la fantasia e diventa realtà. La nostra. Per questo è un personaggio profondo e tragico, solo apparentemente comico. Perché proprio nella sua evoluzione dimostra che non c’è redenzione ma solo compromessi. Gli altri, più o meno, restano fedeli a loro stessi. Lui, invece, cambiando dimostra in maniera cruda e dolorosa che la lordia è dentro di noi, come direbbe Montalbano. Ed è necessaria per sopravvivere.

Boris. Episodio tre: a noi la qualità c’ha rotto er…

Quanto ci dà fastidio tutto questo? Quanto sentiamo che non ci appartiene? Eppure… Come diceva l’immenso Paolo Villaggio, all’indomani del grande successo ottenuto con Fantozzi, la maschera del Ragioniere fa ridere perché la risata funziona da meccanismo di difesa. Cioè, noi siamo Fantozzi ma non possiamo accettarlo e ne ridiamo, deridendo noi stessi.
Lorenzo ci fa ridere perché in lui, inconsciamente, ci riconosciamo e vogliamo esorcizzarlo. Nessun altro personaggio di Boris è così simile al Ragioniere. Persino Biascica l’ha capito: «Ti piace il soprannome che j’ho dato? Me**a! Erano mesi che ‘o cercavo, era facile: Me**a, sposta la piantana». Con la differenza sostanziale, per fortuna, che alla fine Lorenzo ottiene quello che vuole. Fantozzi no.

Certo, avere un senatore in famiglia aiuta ma, come si dice: “chi fa da sé fa per tre“. Lorenzo, infatti, sa cogliere al volo le occasioni che gli vengono offerte. Così, quando Sergio gli propone, senza chiedergli una lira!, la sostituzione di Pinuccio (Claudio Parise), per qualche giorno, è pronto a spiccare il volo. A tutti i costi. Scatenando qualcosa in Biascica che si sente in dovere di parlarne persino con la psicanalista (Emanuela Grimalda): il riconoscimento. Biascica, infatti, lamenta di non aver più a disposizione lo schiavo che è “importantissimo signò. Lo schiavo te permette de tirar fuori d’a roba, no“. Lorenzo, dunque, è riconosciuto. Sempre come schiavo, chiaramente. Sempre per esser sfruttato e costretto a subire nonnismo. Ma assume una nuova veste. Non è più un oggetto a uso e consumo dei capricci altrui. È salito di un gradino nella scala evolutiva del set.

Devi stare muto, basso profilo, chiappe strette e sperare in Dio

Boris
Lorenzo e Duccio alle prese con il crollo dei muri e la fotografia politica

Qui siamo già alla seconda stagione. Nella cui sigla Lorenzo appare come lo stagista muto. Anche se muto, ormai, non lo è più. Ha cominciato a parlare, a difendere le proprie ragioni, quel poco che si è costruito. Ha capito che può contare solo su se stesso per trarsi in salvo. La contrattazione per restare come aiuto operatore è simbolica del suo cambiamento. Sergio se ne approfitta spudoratamente, come sempre. Ma Sergio, si sa, è una iena. Inscenando un teatrino grottesco gioca al ribasso sulla pelle altrui, senza vergogna. E Lorenzo ci casca, in pieno.

«Ahò, alla fine ce l’hai fatta. Hai infin***hiato tutti», gli dirà Pinuccio, dopo aver intascato mille euro in contanti che Lorenzo gli dà di nascosto per vederlo sparire. Parole importanti perché anche in questo caso c’è il riconoscimento. Un riconoscimento gretto, lo stesso di cui sopra. Ma importante perché permette a Lorenzo di poter cominciare a credere nel suo sogno. Un sogno che fino a quel momento non era nemmeno tale.

Boris. Episodio quattro: a ca**o de cane

Lorenzo però, non ne ha consapevolezza. Non conosce appieno le regole del gioco, ben esplicate in Boris. Finora, ha sempre giocato secondo quelle che gli venivano imposte. Adesso, invece, può proporre le sue. E lo fa. Condividendo con gli altri, in un certo senso, la sua prima vittoria. È ingenuo da parte sua ma comprensibile: non vuole nemmeno lontanamente assomigliare ai suoi aguzzini.
Cosa ottiene in cambio? Un bel «magari mori» da parte di Biascica. E un sacco di botte da parte dei colleghi, capeggiati da Sergio, in uno squallido agguato, al buio.

Una sconfitta? Sembrerebbe di sì. Dalla quale però Lorenzo trae la lezione della vita. Le buone intenzioni non bastano. Occorre capire il codice etico, si fa per dire, e comportamentale di chi gli sta attorno. E farlo in fretta. Adeguandosi. Perché è così che funziona: conformandosi all’ambiente in cui si deve (sopra)vivere e non viceversa.
Del resto il mondo che lo circonda adesso è il suo. Ne fa parte. Può darsi che i suoi nuovi colleghi abbiano bisogno di tempo per accettarlo, per non considerarlo più uno schiavo ma uno di loro.

Ero convinto di dover fare lo schiavo per tutta la vita, invece alla fine l’autobus passa per tutti

Ha un bel dire, Lorenzo, che lui arriva per primo, se ne va per ultimo, si fa un mazzo così e guadagna un quinto del minimo sindacale. Sono cose dovute, obbligatorie, quasi ritualistiche, che non interessano ai suoi compari. L’hanno fatto anche loro, ai tempi. Si è sempre fatto e si continuerà a farlo. È la legge della giungla, che non viene mai meno, nemmeno quando svanisce quella del set. Parole forti, significative, che pronuncia Biascica nella terza stagione sul set di Medical Dimension. Lui non ci sta, non gli importa che adesso Lorenzo sia operatore, che sia protetto dallo zio senatore. Il capo-elettricista in Boris non ha niente da perdere nel cercare di rivendicare ciò che gli appartiene di diritto. Anzi, agli occhi della troupe guadagna punti perché non si piega di fronte al potente.

Pensare che adesso il potente sia Lorenzo fa un po’ sorridere. Eppure è così. Come dice sua mamma: «ci siamo salvati, figlio mio, ci siamo salvati». L’elezione dello zio Ovidio, che Lorenzo manco avrebbe votato, è quel salvagente che tutti sperano di avere, un giorno. “Perché l Italia è veramente il Paese dove tutto è possibile“.
Non ci è dato sapere quale sia stato il regalo fatto al senatore per entrare nelle sue grazie. Ma è arrivato a destinazione, questo è certo. Anche perché nessuno vincerebbe un premio da cinquemila euro per un corto contro tutte le mafie che non è ancora stato montato.

Boris. Episodio cinque: è tutto molto italiano

Boris ha fatto la storia della televisione italiana prendendosi gioco di essa. Ha spezzato un flusso continuo, statico, sempre uguale, seppure per breve tempo. A distanza di diciassette anni resta un unicum dal quale rare eccezioni hanno attinto per cercare di proporre qualcosa di nuovo.
Al di là della sua bellezza quello che colpisce in Boris è la rappresentazione della realtà, molto più che semplicemente verosimile. Una realtà con la quale ciascuno di noi, quasi giornalmente, si deve confrontare per poter (sopra)vivere.
Sembra esagerata ma non lo è. Racconta la vita del set come metafora di quella fuori, che infatti raramente si vede nelle puntate. Ci fa ridere perché dobbiamo difenderci o non saremmo in grado di sopportarla. Perché ognuno di noi, nella sua vita, ha avuto a che fare con uno o più personaggi che si vedono sullo schermo. Compreso Lorenzo.
Il quale è, forse, l’unico a cui si può desiderare di assomigliare. Perché dalla sua miserabile condizione di schiavo riesce a emergere, senza pretendere l’Olimpo. Solo un posto tra gli esseri umani. Come meritiamo tutti.