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“Te sei scelto er mito sbagliato, Libané”

Romanzo Criminale è una serie che ha il pregio unico di riuscire a scandire i suoi momenti attraverso citazioni epiche che finiscono per diventare veri e propri slogan. Non avviene soltanto per le scene più iconiche, ma anche per momenti apparentemente insignificanti che vengono elevati dai dialoghi fino a divenire immortali. L’uscita in romanesco, la battuta sagace, quella mezza frase che rimanda a un flashback. Una delle più importanti produzioni italiane di sempre è tale anche e soprattutto per l’utilizzo estremo dell’artificio retorico.

Come possiamo dare il giusto peso a ogni frase epica se ogni frase è, effettivamente, epica? Come possiamo non essere assuefatti dopo un po’ a cotanta solennità? Per rispondere a quest’ultima domanda possiamo fare necessariamente qualche ipotesi. Romanzo Criminale è supportata da un cast ampio e da una trama adrenalinica, con ritmi frenetici, intervallati da momenti di grande e raffinata introspezione. La ricerca di quella frase a effetto, pertanto, non è fine a se stessa, ma è il risultato di un enorme lavoro per veicolare totalmente l’attenzione e l’empatia dello spettatore.

Naturalmente poi ci siano alcune citazioni che hanno un impatto maggiore sulla trama rispetto ad altre. Le mie preferite sono quelle che definiscono la complessità morale dei personaggi, rivelandoli per quello che sono a loro stessi e allo spettatore. Sono attimi della serie in cui è come se gli attori comunicassero con noi attraverso un’altra forma artistica: una pièce teatrale più che mediante uno schermo. Il momento in cui Libano incontra Gerardo er Barbaro in carcere è un esempio perfetto di metatelevisione che può assurgere a manifesto dell’intera serie.

Quell’incontro per il Libanese, per Romanzo Criminale stessa è una profezia.

Uno dei momenti clou dell’ultimo episodio di Breaking Bad è quel “I did it for me”, monologo con cui Walter White ammette, finalmente, di aver fatto tutto quello che aveva fatto unicamente per appagare il proprio ego. Stop alla pantomima relativa al fatto che abbia cominciato a produrre meth per la famiglia, per la malattia e quant’altro ha tirato fuori per giustificare la sua ascesa nel mondo del crimine.

Non è comune, in special modo nelle serie tv, che i personaggi giustifichino i loro atteggiamenti devianti con qualche fine nobile. Serve a renderli più “umani”, più verosimili. D’altra parte è ciò che facciamo noi, messi spalle al muro con un nostro comportamento eticamente ambiguo, quando propriamente illegale. Così fa pure il Libanese in Romanzo Criminale, o almeno è quello che vorrebbe farci credere prima di essere smascherato.

Tutti i protagonisti di Romanzo Criminale – secondo quanto ci viene suggerito da alcuni flashback, dai loro racconti e più in generale dai luoghi in cui sono cresciuti, senza tenere conto che in parte erano in quella condizione anche alcuni fondatori della Banda vera – sono degli emarginati della società. Il loro piano per prendersi Roma è sicuramente mosso alla base da una forte volontà di riscatto sociale.

Ma prima o poi la verità ritorna prepotente in faccia a ogni personaggio

“Mo’ semo criminali. Co’ qua faccia che artro voi esse?” – Il Freddo ha sempre le parole giuste per spiegare qualcosa (640×360)

Per la Banda il crimine è un mezzo e un fine. Non è semplicemente lo strumento mediante il quale ascendere a uno status più elevato, ma è anche fondamentale per mantenerla quella nuova posizione sociale. Le braccia armate, come Bufalo e i Buffoni, sono consapevoli di potersi procurare auto sportive e droga solo utilizzando la forza e la violenza; i più abili e scafati, tipo il Dandi, ripongono la pistola nel cassetto della scrivania e cominciano a commettere reati con penne, pezzi di carta, compravendita di immobili.

Il Libanese si pone in una via intermedia tra quella del Dandi e quella dei fratelli Buffoni. Per lui la presa di Roma è prima di tutto un fatto ideologico. Una visione che ha preso forma fino a diventare realtà, seppur tra mille compromessi con la Mafia e con lo Stato, che sono poi quelli che affosseranno la Banda stessa. Il fine materialistico, i soldi, comune a tutti gli altri membri della Banda, Freddo escluso, passa in secondo piano. La sua, per certi versi, è una rivisitazione dell’art for art’s sake, parodiando Oscar Wilde: il crimine in funzione del crimine, mezzo e fine della sua stessa ragion d’essere.

Ciò nonostante, il visionario Proietti Pietro ha necessità di trovare una giustificazione alle sue azioni: atti, rivela nei primi episodi, funzionali a garantire una vita migliore a lui e sua madre. Un bisogno che nasce proprio dall’esigenza di farsi voler bene da sua madre, consapevole che una donna onesta non approverebbe mai la sua “carriera” e potrebbe persino disconoscerlo (cosa che, in effetti, almeno in parte, accadrà). La menzogna viene smascherata proprio quando il Libanese incontra una figura tanto marginale quanto fondamentale per le dinamiche della serie.

“Gerardo er Barbaro, porca pu**ana eri er mito mio da pischello”

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Il Libano, voltandosi, non vede un compagno di cella, ma il suo futuro (640×360)

Il sesto episodio della prima stagione, quasi totalmente ambientato nel carcere di Regina Coeli, ha talmente tanti layer e sottotrame che di diritto lo rendono uno di più belli e complessi della serie. Uno dei momenti più significativi, anche simbolicamente, è l’incontro tra il Libanese e il suo compagno di cella, che si scoprirà essere Gerardo il Barbaro, ex capo batteria che ha ispirato con le sue gesta criminali proprio Libano. L’interpretazione di Ninetto Davoli è magistrale nel restituire quel senso di mistero prima e quella malinconica, ineluttabile solitudine poi.

Questo episodio è molto più Libano-centrico di quel che potrebbe sembrare. Fuori dalla cella la puntata è corale, all’interno della cella abbiamo un accesso privilegiato nella sua coscienza. Come Virgilio per Dante nella Divina Commedia, Gerardo ha la funzione di accompagnare Libano in questo viaggio alla ricerca della propria identità. La rivelazione catartica che ha il Sommo Poeta è però all’antitesi con il futuro micragnoso, patetico, nella più completa solitudine che il Barbaro prospetta al Libanese. Tutti i suoi amici e compagni di batteria sono morti come conseguenza delle proprie azioni. La moglie gli impedisce di vedere la figlia come risultante della sua vita da criminale. “Er carcere invecchia, che non ce lo sai?“.

Quel momento rappresenta un viatico fondamentale nella vita del Libanese, che mentre comincia già a sperimentare la solitudine come derivante delle sue scelte di vita (è l’unico che quando esce dal carcere non trova nessun parente ad aspettarlo) farebbe ancora in tempo a fermarsi e a cambiare. Simbolico anche che proprio in quell’episodio, nella banda, intervenga la longa manus dei servizi segreti per la prima volta: l’inizio della fine.

Il Libanese avrebbe avuto l’ultima possibilità di essere solamente Pietro Proietti, ma ormai aveva già scritto il suo futuro. Ha scelto di emulare il suo mito e quelli come lui “vivono soli e morono soli”.

Denis Vcom Manzi