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The Handmaid’s Tale 2×11: la vita rinasce nel racconto di un cuore affamato

Dove c’è stata devastazione, il racconto ricostruisce una forma, ritesse i fili, ristabilisce i collegamenti spezzati. Il racconto è zattera in mezzo al naufragio, arca di Noè dopo il diluvio, tenerezza al posto dell’orrore, voce anziché silenzio, giustizia contro la violenza, ordine nel caos, argine all’oblio. La vita continua nel tempo del racconto
Benedetta Tobagi

Era un caldo giugno dell’anno 1979 quando ad Asbury Park Joey Ramone chiese a Bruce Springsteen di scrivere una canzone per la sua band. Springsteen stette in quel parco per un po’. Aveva tante cose che si agitavano dentro di lui e un bisogno inesausto di raccontarle. Ma come esprimere una sensazione in parole? Bruce tornò indietro. Quella notte non dormì. Quella notte sarebbe nato Hungry Hearts, il racconto di una nostalgia concreta, di un’urgenza interiore. The Handmaid’s Tale, il racconto dell’ancella, è nient’altro che questo: una necessità. La necessità di restituire colore e vita all’orrore. Di renderlo comprensibile e controllabile consacrandone il ricordo.

Springsteen in quel brano solo apparentemente leggero e scanzonato scoprì di poter essere un cantore moderno. Di poter dare senso a un’angoscia in un racconto. “È così che posso comunicare”, pensò: tramite la parola, tramite una storia che si fa portatrice di sensazioni. Non consegnò mai la canzone all’amico Joey ma la tenne per sé prima di restituirla al mondo intero. “For always roaming with a hungry heart”, “sempre vagando con affamato cuore”, recitava l’Ulysses, poesia dell’inglese Alfred Tennyson.

June è un “cuore affamato”, una donna che lotta costantemente e ostinatamente per la vita.

June è affamata di vita per sé ma soprattutto per quel bambino che sta per dare al mondo. Come si può scegliere di dare la vita in un orrore così reale come quello di Gilead? Come si può scegliere di lasciare che un innocente cresca in quella realtà? La risposta è in quel cuore affamato, in chi, come l’Ulysses di Tennyson, non accetta il fatto che “la morte chiude tutto”. La risposta è in quella vita stessa. Nel colore davanti all’orrore. Nel fiore che nasce anche nel terreno più arido.The Handmaid's Tale

In quel capolavoro filmico che è Schindler’s List la speranza della rinascita, la certezza di un’umanità che non sarebbe stata sopraffatta trova espressione finale in un colore. Nell’unico colore che si staglia nel grigiore di chi non ha più nulla in cui credere. In quel colore, in quel cappottino rosso c’è la vita che non muore. C’è l’attesa. C’è l’uomo.

Affamati del mondo, ostinati cuori alla ricerca di senso e autenticità, Springsteen, Tennyson e Ulisse intrapresero il viaggio. Non potevano fermarsi, placare il loro bisogno di pienezza. Non sarebbero mai riusciti a saziarsi perché quel vuoto incolmabile è parte stessa della natura dell’uomo. Di un essere umano che tende verso un infinito, un Dio irraggiungibile per la nostra tragica limitatezza. Ma in quella ricerca ostinata e disperata, in quella domanda dell’uomo si nascondeva la risposta stessa. Nel racconto di Ulisse, nel racconto di Bruce, nel racconto di June è il senso finale.

Affidare la propria voce al racconto significa credere nell’altro.

Credere che una comunicazione sia possibile. Che la pienezza più autentica si possa raggiungere solo in un ponte tra “me” e “te”, superando la solitudine di individui e scoprendosi uomini. Perché il racconto ha senso se c’è un ascoltatore.

Cari lettori, in questi tempi difficilissimi e instupiditi dall’odio e dall’ignoranza, dobbiamo ascoltare una storia. Dobbiamo (è davvero necessario) farci bambini e sederci protesi all’ascolto. Molti hanno già chiuso e abbattuto i ponti della comunicazione, hanno murato il cuore. A loro va il mio più sconsolato e inutile commiato. È a tutti gli altri che io e The Handmaid’s Tale ci rivolgiamo. A voi che siete disposti ad ascoltare il racconto di una donna stuprata, torturata, privata delle sue libertà eppure ancora umana. Ancora disposta ad amare e ad aprirsi all’altro.

Mi dispiace che ci sia tanto dolore in questa storia. Mi dispiace che sia a frammenti come un corpo preso in un fuoco incrociato o smembrato a forza. Ma non c’è nulla che possa fare per cambiarla. Ho cercato di metterci anche alcune cose buone”. L’orrore raccontato è un orrore esorcizzato, un orrore che fa molta meno paura.The Handmaid's Tale

Dentro di noi si agita un lupo nero. Quel lupo è lì in attesa delle nostre scelte. Pronto a paralizzarci nella paura. Quel lupo è l’orrore della realtà. Possiamo scegliere di fuggire. Possiamo scegliere di rifiutare di affrontarlo. È una scelta facile. Nessuno ce lo impedisce. La morte non ci riguarda, non ancora almeno. Possiamo scegliere di non raccontare nessuna storia, possiamo perfino chiudere gli occhi davanti all’orrore e sperare svanisca. O fare semplicemente finta che non esista, come i brutali e disumani membri di Gilead in The Handmaid’s Tale.

Oppure possiamo scegliere di soffrire, di andare incontro alla persecuzione, alla sopraffazione, all’umiliazione.

June potrebbe fuggire. Potrebbe interrompere il suo racconto e lasciare che quell’orrore rimanga alle sue spalle. Basterebbe accettare il sacrificio che la morte esige: la perdita di un figlio. Il lupo è là, è la tentazione della violenza, della rinuncia alla vita. Ma June è affamata di quella vita che porta in grembo. In nome di quella vita abbandona la fuga. Tre colpi sparati nel vasto cielo. Tre colpi inflitti a ogni speranza di libertà. Il lupo non c’è più. Eppure, qualcosa è rimasto.

È rimasta la fame di “lottare e cercare e trovare né cedere mai” (Ulysses). È qui che inizia il racconto. Inizia con una nuova vita. Inizia con un nuovo, autentico nome: “Il tuo nome è Holly”. Holly vive nel racconto. La sua esistenza in The Handmaid’s Tale è direttamente legata a quella storia che costituisce la sua essenza. “Raccontarti qualcosa significa credere in te. Credere che esisti. Se ti sto raccontando questa storia è perché voglio che tu esista. Racconto, dunque tu esisti”. Credere. Sperare. Anche nel grigio, anche nel buio più assoluto sembra esserci una fioca parvenza di luce, un cappottino rosso che sa di rinascita.

Chi non crede più non ha nulla da raccontare. Perché lui stesso non è più. Non esiste.

June nel racconto invece dà vita a se stessa, alla sua sofferenza e alla sua esistenza. Nel farlo parla all’altro, parla a suo figlio stabilendo una comunicazione, tracciando un ponte d’amore. Holly non c’è più, non è più lì. Non lo sarà, almeno. E allora in The Handmaid’s Tale raccontare significa superare la distanza, ritessere il legame, perpetrare in eterno quell’originario, sacro momento in cui una madre mette al mondo un figlio e guardandolo negli occhi, facendosi Dio, dà nome a quella vita e tramite la parola infonde in lei amore.The Handmaid's Tale

Fin quando June avrà la forza di raccontare la sua storia, Holly vivrà. Sarà al di là di quel ponte, proteso all’ascolto. Nulla potrà Serena disperatamente desiderosa di quel bambino e disposta a tutto. “Ho sempre voluto soltanto una cosa in cambio: io volevo un bambino”. Ma la verità passa dalla bocca di Fred: “Volevi molto più di questo: l’hai preteso”. Non si può pretendere l’amore. Non si può forzare, non si può costringerlo.

Così quel bambino nasce nel segreto di un amore materno, lontano e irrimediabilmente precluso a chi pensa di poter esigere a forza quell’amore.

Nasce in un cuore affamato, avvolto dalla semplicità di un atto naturale. June crede, spera, sopporta. Racconta. The Handmaid’s Tale, il racconto dell’ancella. Finora avevamo creduto che quel racconto fosse rivolto a noi, che fosse il lascito di June. Ci sbagliavamo: il racconto è il simbolo della speranza della donna, della sua lotta affamata per la vita, della sua convinzione che lontano nel tempo e nello spazio (“Mentre fuggi nel futuro o nel cielo”) Holly c’è. Holly esiste. Ed è quel racconto a dare vita. L’amore affidato alle parole.

Springsteen, Omero, Tennyson, June. Cuori affamati di speranza. Perché a questo mondo, e perfino nel peggiore dei mondi possibili, dobbiamo affidarci a una storia. Sederci, scegliere di far nostra quella storia. Provare un’emozione. Commuoverci. Nel sentimento ogni cantore, antico e moderno, vive e rivive: nella finale ricomposizione di due entità separate finalmente riunite nell’amore. Ascoltiamo, accogliamo, raccontiamo a nostra volta. Dunque, siamo.

Del resto, da tanto tempo molti hanno murato per sempre i pozzi degli abissi. Che riposino in pace

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