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Ma solo per me Perfect Days ha tutto un altro significato (negativo)?

Heaven, heaven is a place, a place where nothing, nothing ever happens“, così cantavano i Talking Heads in una ballata indimenticabile. Può esserci qualcosa di più noioso, ripetitivo, vacuo di un paradiso senza contrasti, lotte e, insomma, vita? Me lo sono domandato durante l’ascolto di Perfect Day di Lou Reed e la visione di Perfect Days di Wim Wenders, un film che mette in scena la devota, instancabile ripetizione delle giornate di un uomo che si occupa di pulire bagni. Ah, cosa c’è di meglio di una vita semplice? Cosa c’è di meglio di chi sa vedere il bello anche nella quotidiana ripetitività delle cose ordinarie? E vogliamo mettere quell’ikigai, quell’impegno devoto in ogni piccola azione, anche lavorativa, della propria giornata? Ah, la felicità delle piccole cose!

I giapponesi e la loro cultura, il loro impegno appassionato, l’arte di vedere il bello… Già, ma qualcosa non va. Non va fin dal primo istante. Non va nei grigi sogni in bianco e nero, in una calma monotona, nel placido ondulare ondivago delle foglie di acanto, nelle canzoni che accompagnano Hirayama, nell’altissima torre, la Tokyo Skytree, nel barcollante sorriso di pianto finale. E allora, forse, non abbiamo capito nulla. Non abbiamo capito Wim Wenders e non abbiamo capito il protagonista di Perfect Days, Hirayama.

Perfect Days non è un film per il Giappone e sul Giappone, è un film per l’Occidente e sull’Occidente.

Come Lost in Translation di Sofia Coppola (uno dei 10 film romantici più strazianti degli ultimi 20 anni) il Giappone è declinato secondo la visione distorta, parziale, elegiaca, idealizzata di noi occidentali. E il protagonista riesce così a ingannarci e a ingannare se stesso. Lui che grazie alla colonna sonora si mette la maschera di occidentale. E si nasconde dietro quell’idealizzata visione occidentale di altissimi concetti sapienziali giapponesi, di quella saggezza che invidiamo al Sol Levante. Hirayama parla poco, sobrio e misurato. Sorride molto, cogliendo il bello in tutto. Si impegna con scrupolo nel proprio lavoro. Sa fermarsi per guardare estasiato la placidezza delle fronde. E si prende cura di piantine di bonsai, annaffiate ogni giorno e trattate con rispetto.

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Perfect Days, Hirayama e la nipote mentre osservano le fronde

Ci lasciamo trascinare in questa apparenza, nell’idea che una vita semplice valga più di tanti affanni. Ma il film continua, il film anzi si riavvolge ancora e ancora e ancora. E riviviamo ogni giorno, una giornata uguale all’altra. È qui che, in cuor nostro, iniziamo a pensare che il paradiso sia un luogo in cui non accade mai nulla di nuovo. When this party’s over, it will start again // Will not be any different, will be exactly the same. Perfect Day di Lou Reed, la canzone che fa da sfondo e dà il titolo al film, è esattamente come Perfect Days di Wim Wenders: un’apparenza di quiete che nasconde un profondo tormento.

Il cantante concepì Perfect Day durante una serena passeggiata a Central Park.

La pace, la semplicità di quella giornata nel verde scorrono in tutta la canzone. C’è liricità ma c’è anche nostalgia, delicato rimpianto, soprattutto nelle note, in un ritmo calmo ma pure malinconico. E c’è poi quel verso finale, apparentemente incoerente: “Raccoglierai ciò che hai seminato“, una citazione dalla Lettera ai Galati di San Paolo. “Non fatevi illusioni: Dio non si lascia ingannare“, chiariva l’Apostolo dei Gentili. E allora anche noi, forse, non dobbiamo farci ingannare da quella quiete apparente.

C’è chi ha voluto vedere in Perfect Day di Lou Reed un riferimento alla sensazione che dà la droga (così è inteso in Trainspotting), altri hanno sottolineato che la persona a cui si fa riferimento nel brano “Potrebbe essere Shelley Albin, suo primo amore ai tempi dell’università, che proprio in quel periodo incontrò per l’ultima volta. Anche la perfezione di quei momenti insieme potrebbe rivelarsi solo apparente, frutto di uno sguardo cinicamente ironico su una vita a due normale e noiosa”. Così la intende un bell’articolo del format “Song History” di Radio Capital.

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Perfect Days, Hirayama intento nelle pulizie

E allora tutto cambia.

Quella che credevamo tranquillità si trasforma in dipendenza o in nostalgia, noia, stanca ripetitività. Più guardo Hirayama in Perfect Days più vedo questo suo e nostro inganno. Provo per un momento ad abbandonare l’idealizzazione occidentale e a calarmi nella sua vita e d’improvviso mi si apre un mondo. Un mondo di isolamento e fuga dalla realtà. Ecco che di colpo il suo ikigai si trasforma in karoshi, mortifero stacanovismo giapponese che è nient’altro che tentativo di estraniarsi da un mondo alienante. E la sacralità dello yamadori (raccogliere alberi in natura per fare bonsai) diventa una violenza. Diventa un atto che costringe quello che avrebbe potuto essere un albero maestoso a rimanere in miniatura. Anche Hirayama avrebbe potuto essere un grande e frondoso acero ma sceglie di togliersi la terra da sotto i piedi. Sceglie di essere un pesce rosso in una piccola boccia.

Rinuncia alla vita vera, alla vita paurosa, al mondo e alle sue brutture. La sua routine, il suo umile lavoro, diventano una fuga costante dalla vastità dell’oceano, dalla terra in cui piantare profonde radici. Quando la nipote gli chiede quando andrà a vedere l’oceano Hirayama risponde semplicemente “La prossima volta“. Ma quando esattamente?, incalza la nipote. “La prossima volta è la prossima volta. Ora è ora“. È tutto qui il rifiuto alla vita del protagonista di Perfect Days. E anche l’amore, l’idea di un sentimento profondo che metta radici nel suo cuore, è rifiutato, negato, allontanato, nonostante il beneplacito dell’ex marito di lei, malato terminale. “Non siamo così legati“, prova a chiosar Hirayama, negando l’affinità che lo lega alla titolare di una piccola izakaya.

Questa rinuncia totale al diverso, al nuovo, all’altro, marcata dalla ripetitività vacua delle scene e delle giornate affonda nel tempo.

In un trauma che viene soltanto alluso ma che deve aver segnato profondamente l’uomo. Hirayama è 陰翳, in’ei, ombra di uomo che fugge ad altre ombre. Ombre del suo passato che riemergono rade e inconsistenti in brulli sogni in bianco e nero. Emergono nelle istantanee di una mano di bambino stretta da quella di un adulto, dalle parole della sorella sul padre, dalla sua reazione alla menzione del genitore. Wim Wenders ce lo fa capire senza dircelo, con quella delicata ritrosia che è propria del suo immenso protagonista.

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Perfect Day(s), l’oziosa non-vita di Hirayama

Il regista ci strizza l’occhio in canzoni e libri, in quell’Eleven: Short Stories di Patricia Highsmith che, tra gli altri racconti, parla anche del piccolo Victor e del suo strano genitore affetto da una qualche malattia mentale. “Voglio essere come Victor“, afferma la nipote di Hirayama. Non dirlo, risponde lo zio. In quel passato, in quelle immagini che riaffiorano nei sogni e nell’apparizione, qua e là nelle scene, di un clochard con disturbi mentali dobbiamo rintracciare l’origine di tutto. L’abbandono della vita passata, il rifiuto di Hirayama di tornare a vivere.

Fugge dal mondo, si estranea, si chiude in una confortevole ripetitività che, quando sconvolta, lo agita e innervosisce. Quando il suo collega di dimette e si trova così costretto a fare il doppio turno ha una reazione rabbiosa. Possibile che lui, così devoto al suo lavoro, così scrupoloso, abbia un sussulto per un semplice doppio turno? No, la ragione è un’altra: quel doppio turno altera la sua routine, muta l’incessante, consolante ripetersi delle giornate. Lo espone pericolosamente al cambiamento che tanto rifugge. Soltanto l’arrivo della nuova lavoratrice gli restituisce il consueto, placido sorriso.

Già, quel sorriso.

Un sorriso che torna e ritorna. Ma che nel finale si svela per ciò che è davvero: pura maschera, pronta a cadere, pronta a lasciare posto a un dolore che, nonostante tutto, alberga dentro di lui e che lui non può cancellare ma solo sperare di non risvegliare rinchiudendosi nella sua fissa quotidianità. Gli eventi, però, (l’arrivo della nipote, l’incontro con la sorella, il dialogo con l’amico) lo espongono irrimediabilmente e ne svelano tutta la debolezza. Così, solo, in macchina, prova a sorridere ma il sorriso si rompe in pianto mentre Nina Simone cantando di un locus amoenus, paradisiaco, della semplicità di uccellini, libellule, pesci e sonnacchiosi momenti di ozio al sole si convince e prova a convincere Hirayama di “Sentirsi bene”.

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Perfect Days, nel finale Hrayama fa cadere la maschera del sorriso e rivela il dolore

Ma l’inganno non può reggere e il protagonista di Perfect Days cala la maschera trattenendo a stento le lacrime. Anche le sue foto, quelle foto che ci erano apparse tanto semplici e genuine, le foto agli alberi, si sono trasformate in un atto compulsivo e malato. Abbiamo visto scatole e scatole di foto nella casa di Hirayama. Tutte identiche a sé stesse, tutte maniacalmente catalogate. Un ripetersi stanco, insensato e disturbato di una routine alla quale l’uomo non può sottrarsi. It’s a new day, gorgheggia la calda e insieme tesa voce di Nina Simone, it’s a new life ma è un’illusione.

Perché è il paradiso, un luogo in cui non accade mai nulla, nulla di nuovo.

Tutte le canzoni contenute in Perfect Days, avviate dal suo protagonista, da Aoi Sakana di Sachiko Kanenobu, passando per Sunny Afternoon, Redondo Beach e (Walkin’ Thru the) Sleepy City rimandano a una semplicità calma che sa però di nostalgia, di tristezza che cade come neve, di un paradiso in cui l’oziosità diventa tedio leopardiano: noioso tormento interiore che ci impedisce di godere per sempre di quella tranquillità.

È questo il senso che vedo in Perfect Days, in un Wim Wenders che ancora una volta, dopo l’insuperabile capolavoro emotivo che è Paris, Texas (immancabile nella classifica dei 10 migliori film di Wim Wenders), ci parla di rimpianto e ricordi senza mostrarci davvero quel passato ma evocandolo dolcemente, con riserbo, e rendendolo così un’emozione universale.

Un senso di insuperabile, nostalgico rimorso.

Hirayama si è messo la maschera da occidentale così da potersi illudere di quei valori di semplicità e saggezza orientale che tanto idealizziamo. Lo ha fatto per sottrarsi alla vita, per far sedimentare un trauma che non sa affrontare. Vuole che giaccia lì, soffocato dal maniacale, ordinato ripetersi di un giorno dopo l’altro. Soffocato dalla rinuncia alla vita. Dal vivere in un eterno paradiso in cui “Quando la festa è finita, ricomincia daccapo, in nulla diversa, esattamente uguale a se stessa“.

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Perfect Days, Hirayama senza il suo sorriso

Perfect Day(s) è l’illusione in cui Wim Wenders, Lou Reed, Nina Simone, Hirayama e noi stessi ci crogioliamo, intimamente consapevoli che ci stiamo ingannando. Intimamente consapevoli che stiamo fuggendo, chiusi nel nostro mondo paradisiaco, a un mondo freddo, inospitale e che ci chiede di metterci in gioco. Ma siamo così sicuri di voler scegliere il paradiso? Io non tanto.