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La scioccante storia vera dietro il film La società della neve

Selezionato di recente per rappresentare la Spagna agli Oscar nella categoria Miglior film straniero, La società della neve di J. A. Bayona è ora disponibile su Netflix. Un film che riprende la terrificante storia vera del disastro aereo delle Ande e che era stata già raccontata ne I sopravvissuti delle Ande (1976) e il celebre Alive del 1993.

La vicenda di come 16 ragazzi siano riusciti a sopravvivere allo schianto del loro aereo sulla catena montuosa delle Ande, resistendo per due mesi in uno degli ambienti naturali più inospitali del pianeta è raccontata nel film di Bayona con un’incredibile delicatezza narrativa che non risparmia però la durezza scenica. La drammatica scelta di ricorrere al cannibalismo per sopravvivere, una volta esaurite le scorte di cibo, è la tematica che più di tutte ha scatenato, in questi decenni, dibattiti e curiosità morbose.

Il film, una coproduzione tra Stati Uniti, Uruguay e Cile con la partecipazione di Netflix, sceglie di non indugiare su particolari raccapriccianti né di scomodare la dimensione religiosa più di quanto sia necessario, mostrando ciò che un pugno di ragazzi poco più che adolescenti è stato costretto a fare pur di uscire vivo da quell‘inferno di ghiaccio.

la società della neve

La società della neve (640×486)

La società della neve, tratto dall’omonimo romanzo di Pablo Vierci, amico di gran parte dei sopravvissuti, è un racconto corale che dà voce ai vivi e ai morti in parti uguali. Non sarebbe stato possibile, per i 16 ragazzi che si sono salvati, uscire vivi da lì se non fosse stato per i loro compagni morti: una constatazione raccapricciante eppure cristallina, che dimostra come l’avventura dei dispersi si sia svolta in una dimensione primitiva, del tutto scollata dalla civiltà.

Ma che cosa è successo agli sventurati protagonisti de La società della neve?

Il 12 ottobre 1972 il Fokker della Fuerza Aerea Uruguaya, prenotato dalla squadra di rubgy uruguayana Old Christians Club e a bordo del quale viaggiavano anche altri passeggeri, decolla da Montevideo in Uruguay diretto a Santiago del Cile. Ci sono 45 persone a bordo, è una bella giornata e i giovani sportivi, a bordo, sono entusiasti: li attende una tournèe sportiva in Cile, per molti l’ultima prima di iscriversi all’università.

L’aereo manovrato dai piloti Ferradas e Lagurara non è adatto a superare in altezza la catena delle Ande, che in quel punto raggiungono picchi di 6000 metri: ma i piloti non sono preoccupati perché il loro piano è attraversare le montagne all’altezza del passo Planchòn, in Cile, per poi discendere e virare in direzione della capitale cilena. Alle 15.21 il pilota comunica alla torre di controllo di Santiago del Cile di essere in procinto di avvicinarsi al passo, così viene autorizzata la discesa. Quello che il pilota non sa, perché non può vederlo (la visibilità è resa impossibile da un denso tappeto di nubi), è che stanno volando in mezzo ai picchi più alti delle Ande, ancora in territorio uruguayano.

Un insieme di errori umani commessi dai piloti, sciatteria delle comunicazioni con la torre di controllo, scarsa visibilità e strumentazioni inadatte portano alla tragedia: alle 15.31 il Fokker si schianta contro un ghiacciaio. 12 persone muoiono nell’impatto, che spezza l’aereo a metà, trascinando alcuni passeggeri nel vuoto e intrappolandone altri tra le lamiere. Altri cinque moriranno nella notte per le ferite riportate, tra cui il pilota Lagurara, le cui ultime parole furono “abbiamo superato Curicò”. Un’informazione errata che avrà conseguenze sui tentativi dei superstiti di mettersi in salvo nelle settimane successive.

Nei giorni successivi i sopravvissuti si trovarono di fronte uno scenario apocalittico: l’aereo spezzato era diventato il loro unico rifugio e ospedale per i feriti, in una tra le zone più remote e inaccessibili delle Ande, dove la temperatura scendeva anche a -30 gradi. Dopo una settimana di ricerche infruttuose (i sopravvissuti vennero anche sorvolati da un elicottero che, però, non riuscì a individuare la carcassa dell’aereo che si mimetizzava nella neve), il 21 ottobre furono sospesi i soccorsi, quando le autorità cilene stabilirono che nessuno poteva essere sopravvissuto.

La notizia arrivò, incredibilmente, agli stessi superstiti, che erano riusciti a far funzionare una delle radio di bordo e ricevevano i radiogiornali cileni, ma non potevano trasmettere la loro posizione (che sarebbe comunque stata errata). I ragazzi sprofondarono nello sconforto, anche perché la notizia dell’interruzione delle ricerche arrivò quando le scorte di cibo erano finite da un pezzo e l’idea di cibarsi del cadaveri dei compagni, perfettamente conservati nelle neve, già cominciava a serpeggiare.

La società della neve

La società della neve (640×427)

Non è chiaro chi propose per primo l’idea, che non fu accolta subito positivamente e diede luogo a lunghi dibattiti tra i ragazzi, come anche La società della neve mostra: ma è sicuro che, se non fossero riusciti a vincere la ripugnanza e a superare un tabù primitivo, nessuno sarebbe sopravvissuto.

La sfortuna sembrava accanirsi senza pietà nei confronti dei poveri superstiti: altri otto di loro morirono nel corso di due valanghe il 29 ottobre. La scena della ricostruzione della valanga è uno dei momenti sicuramente più drammatici de La società della neve. Il senso di oppressione, di disperazione che dà la consapevolezza di essere sepolti vivi, costretti a confrontarsi in prima persona con il tabù del cannibalismo, che prima era invece riservato solo a un paio di volontari, rendono quelle scene a dir poco disturbanti.

La valanga e la conseguente morte di altri compagni e amici fu un duro colpo per i sopravvissuti, ma cementò in loro un’idea che già aveva cominciato a prendere piede: tentare di scalare le Ande e raggiungere il Cile a piedi per chiedere aiuto.

Dopo una lunga preparazione, il 17 novembre partirono in tre, lasciando gli amici nella fusoliera dell’aereo, aggrappati all’ultima speranza: Antonio Vizintin, Roberto Canessa e Nando Parrado.

La spedizione tra le montagne ebbe luogo in condizioni a dir poco disperate: nessuno dei superstiti disponeva di abbigliamento idoneo ad affrontare le temperature gelide dell’alta montagna né tantomeno la strumentazione adatta a scalare i picchi delle Ande. Canessa, Parrado e Vizintin dormivano in un sacco a pelo ricavato grazie a materiale di risulta dell’aereo, in una buca scavata nella neve.

La società della neve

Foto originale scattata dai sopravvissuti (640×360)

Ogni notte superata in quelle condizioni era un vero miracolo.

Dopo essere riusciti a raggiungere la coda dell’aereo, dove trovarono altro cibo, i tre tornarono dai compagni per condividere con loro quel tesoro e le informazioni della prima spedizione: li trovarono ancora più emaciati, stanchi e provati psicologicamente. In più, ciò che avevano constatato in quella prima spedizione era tutt’altro che rassicurante. Basandosi sulle informazioni in loro possesso, erano convinti che, superata una catena montuosa, avrebbero visto le verdi valli del Cile e la salvezza a un passo, mentre durante la spedizione non avevano fatto altro che addentrarsi sempre più tra le montagne.

Il 10 dicembre morì il capitano della squadra di rubgy, Numa Turcatti, da sempre motivatore e bussola morale dei compagni: forse il momento più commovente de La società della neve. La sua morte servì a sbloccare una situazione di stallo: Canessa, Parrado e Vizintin decisero di giocarsi il tutto per tutto e ripartire. Quasi subito Vizintin fu costretto a tornare indietro, dato che le scorte di cibo erano insufficienti per la traversata: a proseguire furono Canessa e Parrado.

Dopo dieci giorni di cammino i due cominciarono a intravedere tracce della presenza umana e, soprattutto, un corso d’acqua, segnale che la civiltà era vicina. Erano ormai allo stremo delle forze quando si imbatterono in un mandriano, che li ospitò a casa sua e allertò i soccorsi: il 23 dicembre furono messi in salvo anche i ragazzi rimasti nella fusoliera dell’aereo.

Alcuni sopravvissuti tornarono sul luogo del disastro nel corso degli anni successivi, in escursioni con appassionati e curiosi di questa storia così incredibile e terrificante. Roberto Canessa, all’epoca studente di medicina, diventò cardiologo, continuò a giocare a rugby e si impegnò in politica. Suo il libro Dovevo sopravvivere, scritto con Pablo Vierci, autore anche de La società della neve.

Fernando Parrado, che nello schianto aveva perso la madre e la sorella (e che, poco prima di partire per la spedizione decisiva, aveva autorizzato i compagni rimasti a cibarsi dei loro corpi) scrisse assieme a Rause Vince il libro Settantadue giorni. La vera storia dei sopravvissuti delle Ande e la mia lotta per tornare e collaborò alla realizzazione del film Alive, dove è interpretato da Ethan Hawke.

Giulia Vanda Zennaro