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Perché continuiamo a guardare Serie Tv che ci fanno stare male?

Quando si parla di cinema, tv e arte in generale, è sempre più difficile delinearne lo scopo, il fine. Si tende a credere che questo risieda nel puro intrattenimento, ma negli ultimi anni si parla sempre più della responsabilità sociale di mezzi che, come la tv, hanno il potere di raggiungere un pubblico sempre più vasto. La tv si è così trasformata, facendo di molte sceneggiature delle vere e proprie opere informative o di semplice riflessione. Serie tv come When They See Us o la distopica The Handmaid’s Tale, ad esempio, hanno fatto questo lavoro egregiamente. Bucando lo stomaco dello spettatore con la brutalità di riflessioni che sembrano sempre più necessarie.

Ma chiunque abbia visto The Handmaid’s Tale o When They See Us sa quanto “l’occasione di riflettere” sia un modo riduttivo di definire la sensazione provata da ogni spettatore a fine visione.

When They See Us 640x360

E, nel loro caso, per ragioni totalmente diverse. Come ancor diverse sono le ragioni che portano uno spettatore qualunque a star sempre più male man mano che la visione di una serie come BoJack Horseman vada avanti. Tre diverse serie tv. Una terrificante storia vera, una disturbante finzione distopica e un cartone animato che esplora l’abisso della mente umana. Tre diversi plot nati con finalità opposte tra loro. Eppure tutte dotate dello stesso comune denominatore: il profondo senso di dolore e disagio che opprime lo spettatore, costantemente, nel corso di tutta la visione.

Un disagio così controverso da risultare di difficile spiegazione. Perché nonostante la sua intensità, sembra quasi inevitabile andare avanti con quella visione che tanto dolore sembra infliggere di volta in volta. Quando si guarda The Handmaid’s Tale si ha quasi la sensazione che la finalità dell’intrattenimento sia ormai passata in secondo piano.

E qualcosa di molto simile avviene man mano che si va avanti con gli episodi e le stagioni di BoJack Horseman. Una serie che sembra “tradire” lo spettatore vendendosi all’inizio come un frivolo cartone animato, nato per regalare quattro risate, per poi trasformarsi in un dramma psicologico di rarissima intensità. Talmente penetrante da far male, e nonostante ciò, impossibile da smettere di guardare.

BoJack Horseman

Ma perché autoinfliggerci tutto ciò? Perché guardare The Handmaid’s Tale e pensare “sto per vomitare”?Concludere un episodio e avere la sensazione che qualcuno ci abbia appena tirato un calcio sui denti.

Difficile dare una risposta lineare. Qualcuno potrebbe menzionare la semplice questione gusti, e qualcun altro potrebbe far notare come la televisione si sia evoluta assieme alla società e di conseguenza a ciò che lo spettatore desidera guardare. Ed ora più che mai sembra che lo spettatore desideri essere intrattenuto sì, ma anche spinto a riflettere. Se non sempre per lo meno molto spesso. E nel desiderio, conscio o insconscio di riflettere, sembra risiedere quella necessità di autoinfliggersi diverse tipologie di disagio in formato serie tv.

Molto spesso The Handmaid’s Tale è stata definita la serie tv disturbante per eccellenza. Ma per quanto il podio le spetti di diritto, è difficile non considerare appunto quella varietà di disagio che accompagna lo spettatore a seconda della serie che sta seguendo.

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When They See Us, come avevamo raccontato qui, è quel dramma che continui a seguire come se fosse un vero e proprio male nessario. Una storia vera, raccontata in tutta la sua crudezza, che segui con la consapevolezza che sapere tutto ciò sia necessario affinché determinate tragedie non si ripetano mai. O per lo meno speri che sia così. D’altronde sarebbe questa la finalità della “memoria”, quell’operazione sociale emersa con forza sempre maggiore negli ultimi decenni. Da quando una società forse più consapevole ha realizzato l’importanza della memoria storica di aneddoti.

When They See Us racconta una storia che negli Stati Unti ha avuto un’immensa risonanza mediatica all’epoca dei fatti. Ma che pochi di noi, altrove nel mondo, conoscevano. Guardare quei 4 tragici episodi è stato come morire dentro, e nel nostro piccolo, rinascere con una consapevolezza in più.

Per lo meno per chi sia propenso a imparare dal passato, la visione della miniserie Netflix è stato un mattoncino in più posto sulle fondamenta della consapevolezza. La stessa sulla quale si ripone la speranza che una società più consapevole sia la stessa in grado di evitare il ripetersi della storia. In quel momento l’intrattenimento diventa apprendimento. E l’apprendimento della realtà raramente è indolore.

Nel caso di The Handmaid’s Tale invece il momento di intrattenimento diventa monito. Il monito di chi è riuscito a immaginare con incredibile lucidità le potenziali conseguenze di certe dinamiche sociali che non sono poi troppo lontane dalla nostra realtà.

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Margaret Atwood, autrice dell’omonimo libro dal quale The Handmaid’s Tale è tratta, ha saputo scattare già nel 1986 una fotografia incredibilmente realistica dell’insieme di piccole scintille in grado di scatenare un incendio devastante.

La frustrazione sociale, il fascino della tradizione, di una religione che conforta solo all’apparenza e solo i poveri di curiosità, troppo pigri per andare oltre le risposte facilmente fornite dalla fede. Le conseguenza sulla società e sulla salute dell’inquinamento, di un sistema consumistico che ha sfruttato le risorse e distrutto il pianeta causando ciò che può essere alla base dell’estinzione umana, la sterilità diffusa. Tanti piccoli fuochi che hanno contribuito nella storia di The Handmaid’s Tale a dare origine all’incubo di Gilead. Qualcosa che ricorda pericolosamente l’origine di regimi dittatoriali del passato (ma anche del presente), purtroppo più che reali.

The Handmaid’s Tale fa male perché mostra tutto il peggio dell’uomo a più riprese e a più livelli. Ma soprattutto fa male perché sembra così pericolosamente plausibile quando i flashback ci raccontano l’escalation che ha portato alla nascita di Gilead. Un paese normale, con problemi comuni, un malessere, i primi attacchi e l’immobilità della gente. La cecità del cittadino comune, di una società opulenta, immersa in una bolla di convinzione che la libertà sia un diritto scontato, sempre e comunque, e che nessuno possa mai privartene.

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The Handmaid’s Tale fa male perché ci fa specchiare in quella bolla di pigrizia e convinzioni mostrandoci come e quanto sia facile vederla esplodere ritrovandosi in un incubo che nessuno avrebbe creduto di pover vivere. Consapevoli per giunta, di non aver fatto nulla per prevenirlo, quando i campanelli d’allarme suonavano a tutto spiano proprio sotto il nostro naso.

E se The Handmaid’s Tale fa male ma ci rasserena in ultima analisi la consapevolezza che sia una finzione distopica, BoJack Horseman ci massacra perché rappresenta sentimenti reali. Quante volte ne avete guardato un episodio e pensato “ma parla di me”. Tante, vero? Questo è il potere immenso del cartone animato di Bob-Waksberg. Lo stesso potere responsabile del disagio che vi pervade durante la visione di ogni episodio della serie dalla seconda stagione in poi.

BoJack Horseman fa male perché, in un modo o nell’altro riesce a parlare non A qualunque spettatore, ma DI qualunque spettatore. La sua capacità di identificare diversi casi umani raccontando l’abisso della loro anima in modo diverso ma ugualmente preciso, è impressionante. E colpisce tutti. Chiunque prima o poi cade sotto i colpi di BoJack Horseman, sentendosi preso in causa da un atteggiamento che gli ricorda tremendamente se stesso. Una caratteristica che finisce per legare inesorabilmente ogni spettatore alla serie.

Quella ricerca di se stessi che pare esser stata perfettamente esternalizzata da uno sceneggiatore di Hollywood in grado di parlare della tua miseria umana dall’altro capo del mondo. Quella possibilità di specchiarsi così bene in un personaggio di finzione diventa fondamentale nel legame di dipendenza che si instaura tra BoJack Horseman e un suo qualunque spettatore. Alla fine lo si continua a guardare, pur facendosi del male, per il gusto di vedersi anche solo parzialmente, raccontati all’esterno.

Quella è la fase in cui l’intrattenimento diventa esplorazione di se stessi. Per la prima volta in immagini e dialoghi direttamente sullo schermo del proprio pc. E non nel silenzio della propria mente e delle proprie lacrime.

Consapevolezza, monito ed esplorazione di se stessi. Tre diverse motivazioni a sostegno di tre divese situazioni in cui continuiamo ostinatamente a guardare serie tv che ci fanno un gran male.

La vera domanda è: quanto ne vale la pena? Una domanda provocatoria quando si parla di tre prodotti di incredibile pregio come quelli citati. Ma necessaria se ci imponiamo una visione che ci lascia il mal di stomaco. Riflettere è sempre positivo, e farlo grazie una semplice opera di intrattenimento vale sempre la pena. Ma fino a che punto?

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