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Perché Asylum è la migliore stagione in assoluto di American Horror Story

American Horror Story ha attraversato ormai 11 stagioni, non sempre ad altissimi livelli: ma chiunque abbia cominciato a vedere questa serie horror antologica, capace di sondare i meandri più bassi dell’animo umano, così come le migliori virtù, non può non convenire che le prime stagioni fossero una vera perla dell’horror televisivo. E su tutte spicca Asylum, la seconda stagione, una potentissima riflessione sul razzismo, sulla diversità, sull’ipocrisia del sistema americano e allo stesso tempo una storia di rinascita e redenzione che non trova eguali nella storia della televisione.

Asylum è la migliore stagione in assoluto di American Horror Story perché riesce a coniugare tutti gli ingredienti che avevano fatto debuttare alla grande la serie con la prima stagione, Murder House, spianando la strada alle stagioni successive, che saranno inizialmente all’altezza ma poi, complice anche l’abbandono della musa Jessica Lange, perderanno l’ispirazione per diventare la parodia di se stesse.

La seconda stagione di American Horror Story si svolge in una delle ambientazioni più classiche del genere horror: il manicomio. Sono gli anni Sessanta e ci troviamo a Briarcliffe, vero protagonista della vicenda, contenitore di miserie umane e perversione così come di purezza e di innocenza. Un ricettacolo di umanità variegata che si raccoglie sotto il segno della diversità: lì convergono gli indesiderati, gli scomodi, i reietti e si ritrovano a dover combattere contro i veri matti, le figure che detengono il potere all’interno dell’ospedale psichiatrico.

Lana Winters e Kit rappresentano due facce della stessa medaglia dell’emarginazione, una delle tematiche che Ryan Murphy e Brad Falchuk mettono sul piatto in questa seconda stagione e che riescono a intersecare meravigliosamente con le altre, anche con quelle più improbabili. Lana, interpretata da una Sarah Paulson in stato di grazia, è una rampante, ambiziosa e sfacciata giornalista che si introduce a Briarcliffe per scrivere un articolo su Kit, appena rinchiuso nell’ospedale perché sospettato di essere il serial killer Bloodyface, che terrorizza le donne della città sequestrandole, torturandole e scuoiandole.

American Horror Story Asylum (640×427)

Lana non ha idea di quello che le capiterà varcando la porta di Briarcliffe: la sua sete di verità sarà sadicamente soddisfatta da Suor Jude, Jessica Lange, la madre superiora, che la imprigionerà contro la sua volontà per costringerla a una terapia di riconversione per “curare” la sua omosessualità, divenendo la sua carnefice.

Eppure, in American Horror Story Asylum niente è come sembra, e persino un rapporto nato con questi presupposti può evolversi in maniera straordinaria.

Kit, un incredibile Evan Peters, come Lana, è un capro espiatorio: anche lui viene discriminato dalla società perbenista e ipocrita dell’America anni Sessanta perché ama la persona sbagliata, una donna di colore, trovandosi invischiato in una faccenda più grande di lui dopo che sua moglie viene creduta morta e lui sospettato del suo omicidio.

Kit e Lana sono i personaggi principali di American Horror Story Asylum, insieme a Suor Jude, ma non sono certo gli unici esempi di emarginazione e ingiustizia che la serie mostra. Pensiamo alla sfortunata Shelley, punita e rinchiusa in manicomio per la sola colpa di voler vivere liberamente la sessualità, in un’epoca in cui le donne non avevano la libertà di disporre del proprio corpo. Proprio lei diventerà la vittima prescelta per i sadici esperimenti del dottor Arden, un crudele torturatore che si nasconde dietro la maschera della scienza e che, suggerisce American Horror Story, ha tanti di quegli scheletri nell’armadio da poterci riempire tutta Briarcliffe.

O la povera Pepper, un’anima colpevole solo di essere diversa e condannata a essere nascosta e spinta all’abbrutimento da una società che non tollera gli “scarti”.

Proprio il dottor Arden sarà al centro di uno degli inserti narrativi più interessanti di questa stagione, che si snoda su diversi livelli narrativi e linee temporali eppure, in 13 episodi, riesce a tenere le fila di tutto, non lasciando niente di incompiuto e delineando in maniera profonda anche i personaggi secondari. Ci riferiamo naturalmente ai due episodi Io sono Anna Frank, in cui una donna che sostiene di essere la celebre e sfortunata ragazzina ebrea viene internata a Briarcliffe e accusa il dottor Arden di essere stato uno dei medici in servizio proprio nei campi di sterminio nazisti.

Un altro degli aspetti di American Horror Story Asylum che convincono di più è la capacità della narrazione di sovvertire gli equilibri, portando lo spettatore a provare un odio viscerale per alcuni personaggi e, alla fine della serie, commuoversi e provare una sconfinata empatia per loro. L’esempio più eclatante è il personaggio di Suor Jude, forse l’interpretazione più intensa da parte di Jessica Lange di un personaggio scritto in maniera a dir poco divina, capace di sfaccettature, livelli di lettura, evoluzione come raramente si sono visti nella storia della televisione e del cinema.

Suor Jude passa dall’essere l’esempio più gretto di ipocrisia, cinismo e crudeltà al diventare un vero e proprio personaggio-martire, capace di intraprendere un vero percorso di redenzione, passando attraverso le peggiori ingiustizie e provando le più terribili esperienze che un essere umano possa provare. Jude ha preso i voti per dimenticare e superare un passato di alcool, notti brave e solitudine, ma anche per sfuggire alla giustizia: il senso di colpa per aver investito una ragazzina, che lei crede di aver ucciso, è ciò che la spinge a vestire l’abito talare (sopra il vestito rosso che continua a indossare di nascosto e che rappresenta l’altra faccia della suora virtuosa e inattaccabile).

American Horror Story Asylum (640×324)

Le tappe evolutive che questo personaggio attraverserà nel corso di American Horror Story Asylum sono un esempio straordinario di scrittura e recitazione: Jessica Lange riesce a farci odiare visceralmente e amare incondizionatamente un personaggio ricco di contraddizioni, così diabolicamente demoniaco e insieme teneramente umano.

Suor Jude è anche (insieme a Lana, della quale rappresenta una sorta di grottesca nemesi) una donna che lotta per affermarsi in una società ancora profondamente patriarcale: la sua lotta per il potere contro il dottor Arden, le sue fantasie di seduzione nei confronti di Monsignor Timothee, sono le armi che utilizza per ribadire il suo posto all’interno della gerarchia dell’ospedale. Anche il suo rapporto con la giovane Suor Mary Eunice, prima adorata discepola poi, dopo che la ragazza viene posseduta dal diavolo (o ha semplicemente avuto un risveglio di coscienza che l’ha portata a mettere in discussione una vita di rinunce e sottomissione?), nemica giurata, sono una splendida metafora della lotta tra sessi che non si rivolge solamente verso gli uomini ma è una battaglia che ogni donna combatte da sola, anche contro le sue stesse “sorelle”.

Proprio il personaggio di Suor Mary Eunice merita un approfondimento a parte perché, al contrario di quello di Suor Jude, non è stato sufficientemente analizzato né riconosciuto nella sua complessità. Il personaggio interpretato da Lily Rabe incarna, inizialmente, tutte le caratteristiche della santità: innocenza, purezza, bontà e spirito di sacrificio. Proprio questo la rende una preda ambita per il male e proprio queste caratteristiche la rendono speciale agli occhi del dottor Arden, che vede in lei una sorta di proiezione virtuosa di se stesso, qualcosa verso cui tendere per non cedere del tutto al male.

Quando la donna cambierà radicalmente, a causa della possessione (anche se noi preferiamo immaginare che abbia sviluppato una sorta di coscienza femminista radicale), lui la disconoscerà e la disprezzerà, arrivando a capire di aver messo sul piedistallo una persona che non riflette l’immagine migliore di se stesso ma quella peggiore e più abietta. Non ci sarà possibilità di redenzione né per Arden né per Suor Mary Eunice, che solo nella morte si riapproprierà di quell’innocenza che le era stata strappata dal demonio (o dall’aver aperto gli occhi sulla crudeltà del mondo). E anche Arden, nella sua scelta di bruciare insieme alla donna amata, purificherà simbolicamente se stesso dai suoi peccati: o, come ci piace immaginare, avrà un primo assaggio delle fiamme dell’inferno che lo stanno aspettando per punirlo della morte che ha dispensato per tutta la vita.

La parabola evolutiva del personaggio di Suor Mary Eunice in American Horror Story Asylum è anche dissacratoria, blasfema e intrisa del femminismo più radicale e intransigente. Pensiamo alla meravigliosa scena in cui la suora balla, provocante, davanti al crocifisso cantando You don’t own me, canzone simbolo del movimento femminista e utilizzato in serie come The Handmaid’s Tale proprio in questa chiave.

Non si può non menzionare uno dei personaggi più machiavellici e ambigui di questa stagione di American Horror Story: il dottor Threadson. Asylum insegna che nulla è come sembra, soprattutto nell’universo parallelo chiuso, asfittico e popolato da deliranti sadici che è Briarcliffe. Lo psichiatra, che ha in cura Lana per la “terapia di riconversione”, apparentemente sembra l’unico dotato di umanità e spirito progressista, all’interno di quella gabbia di matti. Proprio questa maschera di virtù, indossata meravigliosamente da Zachary Quinto, ingannerà la giornalista, che si accorgerà troppo tardi della verità: è lui Bloodyface, il serial killer che tutti credono essere il povero Kit, e lei si troverà a vivere un altro calvario se possibile ancora più terrificante di quello vissuto a Briarcliffe.

American Horror Story Asylum (640×360)

Se i personaggi sono la struttura portante di American Horror Story Asylum, altrettanto si può dire della trama che, nonostante una stratificazione e una ramificazione a volte piuttosto intricata e alcuni inserti narrativi bizzarri, riesce sempre a filare alla perfezione. Molti hanno criticato la scelta di Murphy e Falchuk di inserire gli alieni all’interno della trama, come se l’ospedale psichiatrico, i campi di sterminio, i serial killer e il femminismo radicale non fossero già tematiche abbastanza “pesanti”. Secondo una dichiarazione dello stesso Murphy, gli alieni potevano essere interpretati come una sorta di metafora del paradiso, il che spiegherebbe perché Kit, l’anima forse più pura e innocente di tutta American Horror Story Asylum, venga da loro rapito in punto di morte.

Una delle scene più iconiche di American Horror Story Asylum, passata alla storia proprio perché, nella sua assurdità, rappresenta un fiore nel deserto, è quella della canzone The name game. Quella che, all’apparenza, è una scena spensierata e con un filo di grottesco è, in realtà, una delle più tragiche della serie, se si va oltre la sua estetica patinata. Rappresenta un momento di malinconica spensieratezza immaginata all’interno di una prigione, fisica e mentale, ormai insopportabile per Jude.

Le ali dell’immaginazione possono far volare una mente prigioniera oltre le sbarre, sembra voler dire questa scena. E il risveglio dal sogno, con il ritorno brusco e repentino alla realtà, è traumatico e crudele.

Un’altra scelta narrativa, estetica e metaforica scelta da Murphy e Falchuk che ha reso iconica American Horror Story Asylum è il personaggio dell’angelo della morte, che si manifesta a coloro che sono sul punto di morire per dispensare il suo bacio liberatorio. E non è un caso che questo personaggio si manifesti diverse volte a Suor Jude, nel corso del percorso infernale che compie durante la serie, ma che lei la rifiuti sempre, dicendole che non è ancora il momento. Come se Jude accettasse e comprendesse che il suo cammino di sofferenza e redenzione non è ancora finito, come se non accettasse la strada “facile” della fine, dell’oblio, della morte come liberazione dal male.

Jude accetterà il bacio liberatorio solo a conclusione del suo percorso che l’ha trasformata da donna superficiale e frivola a suora integerrima e crudele, da torturatrice a prigioniera. Lo accetta perché grazie all’amicizia di Kit, che l’ha accolta in casa sua strappandola a una vecchiaia trascorsa dimenticata da tutti a Briarcliffe, ha completato il cerchio di sofferenza e rinascita che è stata la sua vita.

Potrebbe essere il finale perfetto per American Horror Story Asylum, e in parte lo è. Sicuramente si tratta del punto più commovente e sublime della serie, che non ha eguali nella storia della televisione. Ma questa serie ha in serbo un colpo di coda da maestro.

American Horror Story Asylum (640×360)

Perché se il percorso che Suor Jude compie è in senso ascensionale, portando il personaggio “a riveder le stelle” e ad assaporare la redenzione e il perdono divino, oltre che delle anime che ha offeso nella sua vita, quello di Lana è un percorso in senso opposto, che conduce sempre più nel torbido.

Lana è il ritratto dei rischi che comporta seguire la propria ambizione a discapito di tutto: glielo dice proprio Suor Jude, in una delle battute più sferzanti e più profonde di American Horror Story Asylum.

“Spero che lei sappia a cosa va incontro. Alla solitudine, all’enorme dolore, ai sacrifici che dovrà affrontare una donna con un sogno da realizzare. Si guardi, signorina “Lana Banana”, ma non si dimentichi che se lei guarda in faccia il male, il male farà altrettanto con lei”.

Lana Winters è il trionfo dell’ambizione sull’empatia e sull’umanità: abbandonando il figlio, frutto dello stupro da parte di Threadson, che cercava di impiantare il lei il “seme del male” per generare un erede delle sue orrende imprese, crea con le sue stesse mani le premesse perché il male continui anche nella linea temporale che conclude la serie, il 2012. E uccidendolo, come accade nell’ultima scena di American Horror Story Asylum, compie paradossalmente un atto di umanità e insieme assassina l’ultimo residuo di pietà rimasto dentro di lei.

Questo personaggio, presentato inizialmente come l’eroina della storia, colei che senza paura distrugge il male, grazie alla forza della sua penna, compie un percorso discendente che la porta a vendere l’anima al diavolo, diventando schiava della propria ambizione. Strumentalizzare la propria vicenda personale e le orribili tragedie di Briarcliffe per ottenere fama e riconoscimento è il primo passo che conduce Lana proprio a quel sentiero di solitudine, all’isolamento nella torre più alta della propria ambizione, che rappresenta il punto d’arrivo del personaggio.

La scena conclusiva, con il primo piano su Sarah Paulson che si specchia in Suor Jude, e quelle parole che risuonano a morto sulla coscienza della giornalista, fanno venire i brividi. Il male ha vinto di nuovo, nonostante tutto. E American Horror Story Asylum è grande proprio perché riesce a far coesistere il finale più sublime e pieno di speranza con la conclusione più disperata e cinica che si potesse immaginare.

Giulia Vanda Zennaro