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The Good Doctor è più buona se lasciata sedimentare

Questo articolo contiene spoiler fino alla quarta stagione di The Good Doctor compresa.

Il panorama seriale trabocca di serie tv mediche, piene di dottori e dottoresse di ogni tipo raffigurati come cittadini comuni con carriere straordinarie, con i quali il pubblico può riconoscersi e immedesimarsi. Il successo di questo prodotto è tale che tanti ne sono stati creati e tanti vengono trasmessi al giorno d’oggi, inondando i nostri palinsesti e le nostre giornate. Ecco perché produrre un medical drama diverso sembra davvero una missione impossibile, dato che ogni cosa è già stata trattata, ogni approccio già realizzato – dalle versioni comedy alla Scrubs a quelle più drammatiche alla Grey’s Anatomy, passando per quelle più gialle alla Dr. House – e l’unico risultato possibile è l’ennesima serie tv fotocopia, ombra dei suoi predecessori, che cadrà presto nel dimenticatoio.

E poi è arrivato The Good Doctor.

A primo impatto, sembrava un medical drama molto elementare (quindi già visto), soprattutto nello schema delle puntate. Infatti ci sono due mentori ai quali vengono affidati due specializzandi in chirurgia ciascuno e le squadre devono risolvere due casi all’interno di un episodio. Solitamente i due casi si portano dietro un tema etico che viene affrontato dagli specializzandi, assieme alla scelta su come procedere a livello medico. La risoluzione, che avviene alla fine della puntata, può essere negativa o positiva, ma sempre con una morale piuttosto ovvia sul tema etico. Di conseguenza gli episodi sono per lo più autoconclusivi, con la trama orizzontale che si sviluppa lentamente.

Forse è anche per questo che, nonostante il botto che fece in Rai quando venne trasmessa per la prima volta, più andiamo avanti con le puntate e lasciamo la serie tv sedimentarsi dentro di noi, più questa cresce e acquista a poco a poco un’efficacia sempre più profonda, uno spessore sempre più grande e una bontà sempre più emozionante. Un po’ quello che succede con e al suo protagonista, Shaun Murphy.

Shaun a prima vista poteva rientrare in quella schiera di (amati) geni un po’ antipatici che abbiamo già visto molte volte in TV e, soprattutto, poteva risultare una brutta copia di Gregory House in formato specializzando. Infatti, la vita non è stata gentile con lui e le sofferenze che aveva subito, a causa del suo autismo e della sindrome di Savant, avrebbero potuto indurirlo come non mai. In più, proprio per la sua condizione, è in costante lotta per guadagnarsi la fiducia e il rispetto nel suo nuovo ospedale, in particolare di quelli che, come Melendez pensava all’inizio, ritengono che gli autistici non debbono fare i dottori per la loro incapacità nel parlare con i pazienti, nel saperli rincuorare al momento giusto, senza spaventarli con diagnosi troppo dirette pur essendo vere.

Con l’avanzare delle puntate di The Good Doctor, però, scopriamo davvero chi è Shaun Murphy.

La serie tv ci regala uno dei ritratti più realistici della disabilità, rappresentata senza pietismo né banalità. Lui non sa interpretare le persone, a malapena tollera il contatto umano, è terribilmente schietto, non ha la minima idea di che cosa sia il sarcasmo e non ha filtri. La comunicazione non è il suo forte e si mostra spesso troppo testardo in determinate situazioni. La sua postura rigida, l’evitare costantemente lo sguardo delle persone, quelle mani sempre vicine e la sua voce robotica sono tratti distintivi della sua condizione.

Osservare poi i suoi momenti a casa, soprattutto quando all’inizio si cronometrava costantemente, è illuminante per capire la sua disabilità. Per lui, infatti, tutto è scandito dalla sveglia di un cellulare. Dal lavarsi i denti al mangiare un mela, senza flessibilità alcuna. Perché a Shaun i cambiamenti non piacciono proprio per niente.

The Good Doctor

Gli occhi di Shaun, però, vedono là dove noi non possiamo arrivare. Colgono quei dettagli indispensabili che sfuggono anche ai colleghi più esperti, grazie alla memoria fotografica e all’abilità di accorgersi di ogni minimo dettaglio nelle cose che destano il suo interessamento.

Ma soprattutto The Good Doctor ci mostra quanto questo ragazzo sia estremamente sensibile.

Nell’attaccamento al fratello: Steve lo capiva come nessun altro e, anche se non c’è più, continua a calmarlo grazie a quel bisturi giocattolo, a guidarlo e a influenzare la sua vita positivamente perché è lui il motivo per cui Shaun ha deciso di fare il medico. Nel rapporto con Glassman, quel mentore che ha sempre creduto in lui nonostante tutto e l’ha trattato come suo pari, senza fargli una colpa per la sua disabilità, diventando così il suo migliore amico. Nell’evoluzione del rapporto con Lea, quella persona con cui si è sentito così a suo agio da innamorarsene, e di come si preoccupa di costruire un mondo migliore per la loro bambina che, purtroppo, non vedrà mai la luce. Nei legami che ha creato con i suoi colleghi – soprattutto con Claire – e con i pazienti, tanto che nel terremoto non ha voluto lasciare Vera a costo di rischiare la sua stessa vita.

Shaun non ha paura di piangere e guardarlo emozionarsi stupisce (per non dire che fa piangere pure noi, come succede con il tumore di Glassman o la perdita della figlia) non perché le persone affette da autismo non provino emozioni, ma perché le esprimono in maniera diversa. Non teme nemmeno di parlare delle proprie esperienze private, né della sua condizione: lo dimostra quando uno scorbutico e solitario dottore si presenta al St. Bonaventure e Shaun si accorge che potrebbe rientrare nello spettro autistico, diagnosi aberrata e respinta dall’uomo, anche se poi capirà e consulterà uno specialista a riguardo.

La consapevolezza, però, del suo lato oscuro gli è ben chiara e capisce che può influenzare la vita di chi lo circonda.

Vuole imparare come si fa a essere empatici e lo fa nell’unico modo che conosce: studiando. Analizza il linguaggio del corpo di pazienti e colleghi, si fa aiutare dai suoi amici a comprendere come leggere le emozioni delle persone prima che loro aprano bocca, fa domande a ripetizione risultando il più delle volte inopportuno perché ancora non concepisce quando è il caso di tacere. Affronta quel cambiamento che tanto lo spaventa perché, anche se ne prova ribrezzo, sa che è la cosa migliore per lui e per coloro a cui vuole bene. Soprattutto con l’arrivo dell’amore, soprattutto in un lavoro come quello del dottore.

E non è l’unico che cambia.

The Good Doctor non è solo Shaun Murphy e lui non è sempre al centro di ogni discorso, sebbene le sue vicende siano le più approfondite di tutte e pur essendo importante il modo in cui i suoi colleghi si approcciano a lui. Infatti, nonostante alcune titubanze all’inizio soprattutto da chi poi ne ha scoperto il vero valore (in particolare Claire e Melendez, con quest’ultimo che non esitava a difenderlo quando doveva), tutti alla fine lo trattano come uno di loro, non avendo paura di ferire il ragazzo per colpa della sua disabilità. Cosa che dovrebbe essere normale, del resto.

Lo stesso ragionamento che si fa per Shaun, a grandi linee può essere compiuto per gli altri personaggi. Le loro personalità apparentemente sono semplici e rientrano in categorie ben riconoscibili: c’è quella gentile, l’antipatica super competitiva, il professionale che segue rigidamente le regole, il primario pieno di comprensione e supporto, il chirurgo cattivo che l’osteggia perché vuole il suo posto e quello invece che non approva Shaun ma impara a rispettarlo e via dicendo. Andando avanti nella serie tv, pero, i margini di quei personaggi che apparentemente sembravano così definiti iniziano a sfumarsi, ed emerge la loro profondità.

The Good Doctor

L’esempio più calzante è probabilmente Morgan Rezinick, uno dei personaggi più intelligenti della serie tv.

Ritratta inizialmente come una ragazza antipatica ed egoista che si preoccupa solo del suo successo professionale, nel corso di The Good Doctor comprendiamo quanto quella che sfoggia con fierezza sia solo una facciata per nascondere le proprie paure e insicurezze. In realtà è una donna molto divertente e, soprattutto, altruista e lo dimostra quando ha di fronte la scelta più difficile di tutte: salvare una paziente e sacrificare le sue mani, indispensabili per la sua carriera chirurgica, o proteggere il suo tesoro ma lasciar morire una persona. Lei sceglie di fare l’operazione, incurante della sua malattia e del suo destino, perché il suo istinto sarà sempre quello di aiutare gli altri.

Lo vediamo anche con i consigli schietti e diretti, ma che vengono dal cuore, che dà a Shaun, a Park e soprattutto a Claire. Tra le due infatti, sebbene a Morgan costi ammetterlo, si è creata un’amicizia a doppio senso, dove entrambe si spalleggiano e si sostengono: basti pensare a quando Claire aiuta Morgan a soffrire per la perdita del suo partner, nonostante stia ancora combattendo il difficile rapporto con sua madre. Le persone, infatti, sanno che possono contare su Claire e sul suo sostengo, come quando aiuta Shaun a capire cosa significa innamorarsi. Lei è quella gentile sì, ma non è ingenua. La sua bontà però rimane intatta nonostante i colpi che la vita le ha inflitto con suo padre, la spirale distruttiva in cui è finita dopo la morte di sua madre e la tragica dipartita di Melendez.

Claire e altri personaggi, come la forte, indipendente e allo stesso tempo fragile dottoressa Lim, sono poi scritti in modo tale da evitare stupidi stereotipi sull’etnia, sesso o età. Certo, le difficoltà che hanno affrontato vengono trattate, analizzate e sviscerate più volte, in un lento crescendo che rende le loro personalità ancora più tridimensionali, insegnando a noi tutti che nessuno dovrebbe fermarsi all’etichetta che gli viene appicciata da altri. Anzi, le differenze e la disabilità, come dice Glassman, possono diventare una possibilità. E questo è, semplicemente, il nucleo più vero di The Good Doctor.

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