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It’s Okay to Not Be Okay e non solo: l’universalità dei k-drama

Quando si parla di produzioni straniere bisogna sempre prendere in considerazione diversi fattori. In primis dobbiamo ricordarci che il cinema è certamente universale, ma va declinato nelle particolarità dei diversi stati a cui si fa riferimento. Diciamocela tutta: ogni tanto facciamo anche fatica a rapportarci a certi prodotti, proprio a causa della loro lontananza. Saremo tutti cittadini del mondo, ma siamo anche imbevuti del nostro particolare vissuto. D’altra parte, è sempre un bene provare a mettere il naso fuori da casa propria e guardarsi intorno, no? A fare due passi vi accompagno io, se me lo permettete. Senza andare troppo lontano, proverò a spiegarvi perché dovreste recuperare un prodotto troppo spesso snobbato e che merita molto di più di quanto dia a vedere. It’s Okay to Not Be Okay e oltre: vediamo insieme perché i k-drama dovrebbero essere apprezzati. La parola chiave? Universalità.

It's Okay to Not Be Okay

Da qualche anno la cosiddetta “onda coreana” sta scuotendo le radici del mondo: complice la grande popolarità riscossa da diversi gruppi musicali in tutto il mondo (si, sto parlando dei BTS, ma questa è un’altra storia) il piccolo stato dell’Asia orientale si sta facendo spazio nel cuore di molti. Una fetta di questo successo è sicuramente riservata ai k-drama (o drama coreani): simili ai dorama giapponesi, hanno diversi punti in comune con il genere della soap opera, motivo per il quale sono molto apprezzati in America Latina. Come lo si voglia definire, sono sicuramente un prodotto televisivo diverso da qualsiasi altra cosa si trovi in televisione. Eppure ogni volta, almeno a me, sembra di tornare a casa.

Se da una parte la lunghezza di un k-drama può variare enormemente (si parte da una dozzina di episodi a stagione per arrivare fino a duecento quando si parla di drammi storici o epici) allo stesso modo può farlo il racconto. Si possono trovare le trame più varie: storie d’amore, di guerra, ritratti realistici della vita nel luogo, esplorazioni storiche, racconti comici. E tutti, e dicono tutti, riescono ogni volta a stupire. Prendiamo come esempio It’s Okay to Not Be Okay, disponibile su Netflix: per evitare spoiler, possiamo dire che la trama tratta di una tormentata storia d’amore ambientata ai giorni nostri a Seoul. Sembra banale, vero? Ne abbiamo viste mille altre. Potrebbe anche esserlo, se in scena non vedessimo tutt’altro: una giovane scrittrice di racconti per bambini con un passato oscuro e tormentato e un giovane che tenta di fuggire da una minaccia senza forma e allo stesso tempo è costretto a rapportarsi alla grave forma di autismo del fratello. Potremmo anche citare Crash Landing on You (di cui abbiamo parlato in questo articolo), avente una trama tanto complessa quanto spaventosa nel suo realismo: una giovane ereditiera, nel testare un nuovo prodotto della sua compagnia che consente di fare parapendio, fa un incidente a causa del forte vento e si ritrova oltre il confine della Corea del Nord. Da qui inizia un percorso per tentare di tornare a casa e pian piano si rende conto che quelli che considerava nemici sono molto più simili a lei di quanto potesse immaginare.

Le trame di queste serie tv non devono essere necessariamente complicate o poco avvicinabili. Spesso, al contrario, finiscono per toccare temi comprensibili a tutti rendendoli però interessanti e innovativi. Questo ad esempio fa Start Up, anch’essa disponibile su Netflix, che affronta il tema delle start up in una fittizia Silicon Valley della Corea del Sud.

It's Okay to Not Be Okay

E’ pur vero che prodotti come questi hanno le loro pecche. Sarà per una differenza culturale, sarà perché siamo abituati a prodotti diversi per costruzione narrativa, regia e approccio, o ancora per la barriera linguistica che non può non essere considerata. Spesso si fa fatica ad entrare nel loro mondo. Per un occhio poco allenato al genere possono risultare ridicoli o banalmente strani, con le loro scene a rallentatore o gli effetti sonori aggiunti successivamente. E va benissimo così: non devono necessariamente piacere.

Voglio però farvi riflettere sul motivo per cui, a mio parere, dovrebbero meritare qualcosa in più. Sotto la patina quasi fiabesca e il rallenty, sotto le musiche, la spettacolarizzazione e l’umorismo tutto loro, i drama coreani fanno una cosa molto semplice: ci portano qualcosa di universale e comprensibile a tutti, pur essendo paradossalmente così distanti. Le storie d’amore sono di quanto più puro possiate trovare nella loro semplicità e nascondono una delicatezza e attenzione al concetto più banale di amore che troppo spesso viene dimenticato nella serialità attuale. I dialoghi, gli intrecci, gli spicchi di vita quotidiana, sono veri. Realistici. Così lontani da ciò che ci sembra di conoscere eppure così vicini. I sentimenti che animano i personaggi di serie come It’s Okay to Not Be Okay sono qualcosa che riusciamo a comprendere perfettamente, al di là del contesto: ci viene data la possibilità di immedesimarci senza dover fare i conti, per una volta, con storie difficili nel loro essere faticose da digerire. Ciò non vuol dire che tutti i k-drama finiscano bene (potete dare un’occhiata a Youth of May in questo senso) ma sono spesso e volentieri una ventata di aria fresca. Semplici ma complessi. Dolci ma brutali. Spettacolari senza nessuna pretesa. In più, se vi piace questo tipo di estetica, posso dirvi che le attrici e gli attori sono tutti belli. Ma belli, belli, belli.

It's Okay to Not Be Okay

Per questo parlo di universalità: non è facile trovare un prodotto, apparentemente di nicchia, che ci faccia viaggiare pur rimanendo seduti davanti a uno schermo e allo stesso tempo ci colpisca perché familiare e confortante. Sono sempre dell’idea che ci si debba approcciare a qualcosa di diverso da ciò che si conosce, anche solo per dire di averlo fatto. E poi chissà, potreste ricredervi, non lo so. Quello che posso dirvi è che i k-drama ci regalano la stessa sensazione che si prova assistendo ad un’opera teatrale, dove non c’è la distanza data dallo schermo. Non ci sono barriere. Qualche passo, e ci ritroviamo in scena.

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