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Dai corti su Netflix ad Asteroid City: Wes Anderson è Wes Anderson anche quando è “troppo” Wes Anderson

Attenzione: nell’articolo che segue non sono presenti spoiler sui corti di Wes Anderson The Wonderful Story of Henry Sugar, Poison, The Ratcatcher e The Swan. Ma pure a proposito di Asteroid City, volendo.

Roald Dahl è nato nel 1916, non nel corso degli anni Sessanta. Meno male, peccato. Wes Anderson, invece, è nato nel 1969 e non nei primi decenni del Novecento. Meno male, peccato. Non sappiamo se il primo avrebbe preferito vivere nella nostra epoca, ma siamo un po’ più sicuri a proposito del secondo: pur essendo figlio del suo tempo al punto da averne plasmato le forme con rarissima personalità, coglie ogni occasione per tuffarsi negli anni che furono attraverso una prospettiva che strumentalizza il contesto per dar vita a qualcosa di completamente nuovo. Dentro un Novecento ormai svanito, nelle sue coreografie, nei suoi linguaggi. Nel suo teatro, nella sua letteratura. Pure nella sua musica. Persino nelle rispettive visioni del mondo e nelle sue ironiche storture, se volessimo scavare più a fondo. Tra un decennio e l’altro, tra i Quaranta e i Settanta. A patto che il Duemila riviva esclusivamente nella loro luce riflessa. Meno male, peccato.

Meno male che a un certo punto, però, loro due si sono incontrati davvero. Per la seconda volta, dopo Fantastic Mr. Fox. Tra le pagine di un ciclo di racconti, perfettamente centrati all’interno di una ripresa che ne schiude mille altre. Dentro un’operazione espressiva in cui Wes Anderson sembra essersi divertito un mondo col piglio del fotografo, dell’autore teatrale, del romanziere. Del cineasta, più di tutto. Uno che sul grande schermo ci ha sempre portato quello che gli pare, alle proprie condizioni. E altrettanto ha fatto sul piccolo, di schermo. Grazie a Roald Dahl, scrittore da cui ha tratto un mediometraggio e tre corti da pochi giorni disponibili su Netflix. Opere che a una prima occhiata sembrano non avere niente a che vedere con l’altra sua creatura attualmente in circolazione, il lungometraggio Asteroid City. Peccato, direbbe qualcuno. E meno male, aggiungiamo noi. Perché al di là dei limiti più o meno evidenti del film ora al cinema, Wes Anderson va benissimo così. Perché è sempre Wes Anderson, anche quando è “troppo” Wes Anderson. E forse lo è persino di più.

Se volessimo essere ingenerosi nei confronti di Roal Dahl – e non abbiamo alcuna intenzione di esserlo – diremmo che sembrerebbe esser nato per prestare le proprie opere a Wes Anderson in un futuro più o meno indefinito. Non lo diremo perché sarebbe altrettanto vero il contrario: i due parlano lingue affini, pur con le dovutissime differenze. Differenze che non si colgono soprattutto nei tre cortometraggi Poison, The Ratcatcher e The Swan, ma anche nel titolo più popolare tra quelli distribuiti negli ultimi giorni: The Wonderful Story of Henry Sugar. Opere ideali per schiudere ancora una volta il genio del regista texano, e per portarlo a lavorare talora per sottrazione come raramente aveva fatto nel corso della sua lunga e gloriosa carriera. Una carriera in cui il rapporto privilegiato col canale dei cortometraggi si era già palesato a più riprese – si pensi per esempio al “dimenticato” prequel di The Darjeeling Limited, il delizioso Hotel Chevalier – e che si sublima attraverso gli scritti di Dahl in un meccanismo espressivo che si sta consolidando nell’ultimo Wes Anderson più che in passato: la straordinaria abilità di dare il meglio di sé attraverso i tempi del cortometraggio. La considerazione finisce per essere utile anche per evidenziare i pregi delle creature per Netflix e i (presunti) limiti di Asteroid City: il ricorso ai racconti brevi, già visto in The French Dispatch, evidenzia una progressiva concentrazione sempre più marcata sulla forma, a discapito di personaggi e intrecci che assolvono la loro funzione primaria nell’essere parte integrante della danza visiva delle sue creature.

Gli intrecci, allora, si infittiscono di dettagli e situazioni parossistiche controllabili solo dalla messa in scena, tanto da costituire le componenti di un flusso in cui la storia è un raccordo di immagini e soggetti in movimento dal linguaggio creativo, più che un racconto organico dai criteri più canonici. Criteri che si ritrovano, invece, nell’impalcatura più riconoscibile dei corti, caratterizzati dalla maggiore linearità dei brillanti intrecci e, si diceva, da un processo di sottrazione. Il motivo è presto detto: i corti di Netflix funzionano benissimo nella misura in cui la forma, sempre più ancorata alla simulazione di scenari da palcoscenico, asseconda con piacevole equilibrio una narrazione portata avanti da un numero limitato di interpreti – maschere fenomenali nel passare attraverso i personaggi più disparati con eccellente maestria – e una scrittura che si preoccupa di aprire e chiudere il cerchio con un intreccio più ordinario (almeno nella struttura), al di là degli usuali virtuosismi che arricchiscono la visione. Una narrazione densa dal ritmo vorticoso, associabile anche a quella portata in scena dal primissimo Wes Anderson, con un numero limitato di personaggi carismatici che si poggiano sulle parole pronunciate almeno quanto sui non detti. Esplicitati, se necessario, sulla sola dimensione impossibile da racchiudere nelle inquadrature del regista: la nostra immaginazione. Il Wes Anderson di The Wonderful Story of Henry Sugar è allora, niente più niente meno, il Wes Anderson che ci aveva fatto perdere la testa con I Tenenbaum. Ancora più bravo, in molto meno tempo.

Ma è lo stesso Wes Anderson che molti non hanno ancora capito in Asteroid City? E, aggiungiamo, pure in The French Dispatch? Nì.

Se da un lato è bene ribadire quanto gli intrecci finiscano talvolta per assumere un ruolo persino subalterno, specie in trame che si schiudono in un’estetica dirompente che priva ogni altro elemento di spazi autonomi, dall’altra il lavoro baroccheggiante di Asteroid City finisce per sacrificare oltremisura dei personaggi poco empatici – ognuno dei quali rappresenta un’occasione persa – e martirizza il plot stesso, del tutto privato di aperture e chiusure davvero efficaci. Rimangono le istantanee, bellissime. Un gusto per lo storytelling immutato, seppure evoluto sotto forme a dir poco innovative. E i “corti”, i soliti “corti” che vampirizzano Asteroid City, a rappresentare le tessere di un mosaico incompiuto solo all’apparenza. Un mosaico che qualcun altro (forse chiunque altro) avrebbe contaminato maggiormente con l’essenzialità dei corti – si pensi soprattutto a The Swan – per ritrovare la misura individuabile in The Wonderful Story of Henry Sugar.

Eppure tutto ciò conta solo fino a un certo punto. Perché par contare poco per Wes Anderson, e a un certo punto chi se ne frega della trama. Non è rimasto ingabbiato nella forma, come molti hanno scritto negli ultimi giorni: è sempre stato così. Meno di così, ma comunque così. Gli ultimi due lungometraggi rappresentano quindi il culmine di un percorso in cui si è liberato delle esigenze del pubblico meno paziente, e in cui la scrittura dei testi è ormai asservita alla ricerca ossessiva di geometrie ideali che valicano i confini del cinema per issarsi in una nuova dimensione, per certi versi inedita: il problema (apparente) è rappresentato non tanto dall’intento di fondo, del tutto coerente con la poetica dell’autore, bensì da un “eccesso” che smarrisce (volutamente) gli intrecci globali fino a levare ogni possibile riferimento “classico” agli spettatori, persi nell’eterea bellezza della sua estetica inconfondibile.

Cosa ci resta, quindi, della sovraesposizione di Wes Anderson negli ultimi giorni, rimbalzato tra il grande e il piccolo schermo in equilibrio tra la continuità e la discontinuità? Restano i suoi pregi, quelli che ne hanno fatto il grande autore che è e che si stanno affinando negli anni attraverso un processo evolutivo ancora distante da un punto d’arrivo, e quelli che rappresentano dei limiti più per i detrattori storici che per chi ha imparato a immergersi nelle sue creature senza pregiudizi di sorta. Restano un film bistrattato ben al di là dei suoi demeriti e dei corti che danno l’idea di volerne ancora di più, fino a rendersi conto che la loro forza stia proprio nel loro essere effimeri senza doversi piegare alle regole di un percorso più lungo. Restano le sue eclettiche scatole cinesi, le sue palette e il disvelamento dei suoi mondi sopra le righe, reali solo nelle menti dell’autore e di chi sa entrare nelle sue logiche peculiari. Tanto variopinti e immersivi da farci dimenticare quanto prosaico sappia essere, invece, il nostro di mondo. Restano i buoni che non sono buoni davvero e i cattivi che non sono cattivi davvero, anche se non partono più i Kinks. Resta, soprattutto, Wes Anderson. Il solito Wes Anderson, per natura insolito. Efficace anche quando è “troppo” Wes Anderson. E pure quando è un po’ meno Wes Anderson. Il più grande regista di corti che si sia mai messo all’opera con quelli lunghi, e che nei corti sembra stia trovando la chiave ideale per caratterizzare la nuova fase della sua carriera. Più concettuale e destinata a un pubblico meno trasversale. Meno male, peccato. Ma no, finiamola: meno male, e basta.

Antonio Casu