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The Romanoffs – 1×03: quando la finzione si impregna di realtà

Il terzo episodio di The Romanoffs si pone in forte discontinuità con la première. Nei primi due appuntamenti il racconto si era concentrato su due modi diversi di sentirsi, più che di essere, Romanov. L’orgoglio come ultima consolazione della propria vita. Esiti diversi, quelli di Anushka e Michael, ma accomunati da un cambiamento catartico. Due storie semplici, quotidiane, in cui la presenza dei Romanov era relegata al ricordo, sbiadito e carico di bugie, di chi si rifugia nel passato. Di chi, incapace di vivere il presente, volge indietro lo sguardo e si crogiola in una supposta superiorità di sangue.

Ora, invece, The Romanoffs cambia registro. La narrazione si fa più sfilettata, stratificata. Impostata su diversi piani di lettura. L’atmosfera, da comune e piatta, si carica delle sfumature di un thriller. Gli elementi ci sono tutti. Dal castello-albergo, al luogo isolato. Passando per atmosfere crepuscolari e personaggi eccentrici.

La protagonista, Olivia (Christina Hendricks), è un’attrice di grido ma piatta e convenzionale.

Tutto nel suo mondo è affidato alla ripetitività. Le stesse frasi carezzevoli che rivolge alla regista e ai suoi colleghi sanno di già detto. Stereotipati complimenti che non la toccano minimamente. Sul suo volto è fossilizzata un’espressione immutabile, beota e impostata. Per la prima volta in The Romanoffs il personaggio principale non ha nulla a che spartire con la casata reale di Russia. Sarà invece la regista, Jacqueline, a millantare una supposta parentela con i grandi zar.

The Romanoffs

Eppure, nel corso dell’azione, qualcosa sembra mutare. In un susseguirsi e sovrapporsi di accadimenti la storia passata e il presente sembrano venire a sovrapporsi. La realtà si mescola con la finzione. I ruoli paiono prendere vita e parlare. Sono le anime russe. Sono le vivide rimembranze di uomini rimasti cristallizzati in un dolore passato. In un racconto che si è fatto etereo ed eterno, fissato indelebilmente nell’immaginario collettivo.

Quelle anime russe attraversano l’azione, riprendono vigore nel riattualizzarsi – seppur nella finzione scenica – degli eventi. Si ridestano dal sonno del tempo e parlano per bocca del cast. La storia si fa carne viva, prende possesso della scena, investe la realtà. Samuel diventa Rasputin e Jacqueline Marija, l’imperatrice madre che mai si rassegnò alla speranza che i suoi nipoti fossero sopravvissuti. L’hotel si fa mutevole, ora reggia dei Romanov, ora casa Casa Ipat’ev, il luogo in cui avvenne la strage.

Olivia è sempre più svuotata di sé.

Perde sempre più aderenza con la sua identità. L’esteriorità dei suoi modi viene continuamente scalfita, intaccata da un universo in cui il presente è anche passato. Ha un rapporto con Samuel ma su di lei si proietta l’ombra di Rasputin. Prova a recitare una parte nel canonico distacco che la contraddistingue. Ma finisce per sentire realmente il disagio della zarina Aleksandra. In un inconsapevole e imposto metodo Stanislavskij, la sua dimensione si fonde indissolubilmente con quella dell’imperatrice. Non recita più. Non è più Olivia.

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Diventa Aleksandra. Lo è nel timore dell’assalto amoroso di Samuel/Rasputin sulla scena. Lo è pure nel suo compassionevole supporto a Jacqueline/Marija, dopo la scena della possessione. E lo diviene soprattutto nel finale. Nella drammatica incertezza di donna sottratta al suo letto. Prelevata e condotta senza spiegazioni là, in casa Casa Ipat’ev, il luogo in cui troverà la morte. “La casa dallo scopo speciale”, così chiamata dai bolscevichi, che dà il titolo a questo episodio di The Romanoffs.

Come spesso accade nei thriller, lo scioglimento finale sancisce la distanza dall’apparenza degli avvenimenti e rivela la realtà dei fatti. Quelle anime di Russia erano state fintamente evocate. Richiamate alla vita solo per ragion di recita. Una recita inconsapevole per Olivia. E proprio per questo reale. Viva. Nell’approntare ogni cosa perché tutto sembri come allora, perché tutto sembri reale, l’ambiente si impregna di quella finzione. Quasi fosse una seduta spiritica. Aleksandra è invocata. Invocata dalla brutalità che precede il suo omicidio.

Quando si concretizza la strage non c’è più Olivia, c’è solo Aleksandra.

Rivive quell’orrore, rivive la strage. È quello che Jacqueline vuole. È la recita che si fa vita vera. Che si fa azione reale. Ma, paradossalmente, quella ricercata e ossessiva rispondenza al vero si concretizza in tutto e per tutto. Nulla in Olivia è finto. Nulla è apparenza. Aleksandra muore e prima di farlo riesce ad assistere all’assassinio di suo marito. Così accade anche a Olivia, sopraffatta solo alla fine, dalla paura di ciò che le accadeva intorno.

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L’immagine conclusiva, quel viso, ora sì, espressivo seppur immobile, sa di ironia tragica. Là, nell’ultima scena sul set come nella vita, Olivia trova quella forza espressiva che non aveva mai avuto. La trova paradossalmente nel pallore della morte. La rigidità dell’inanimato si affianca e si contrappone nel contempo alla maschera di piattume che aveva indossato nella vita. In quello sguardo assente ora, finalmente, c’è la sua massima, finale e irreversibile autenticità recitativa.

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