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Hausen 1×01/1×02 – L’infelicità che fa paura

Un bambino scomparso, una melma oscura e maligna, un condominio spettrale. Così comincia Hausen, la nuova serie tv tedesca disponibile su Sky, ideata da Till Kleinert e Anna Stoeva, con la regia di Thomas Stuber e prodotta da Sky Deutschland. Il network sembra aver scommesso come Netflix sulle produzioni tedesche come Dark, e sembra aver fatto centro. Le prime due puntate sono andate in onda sabato scorso e ci hanno sorpreso e spiazzato, ci hanno convinto a recensirle, ad accompagnarvi lungo gli otto episodi che si concluderanno sabato 13 marzo. Prima di procedere con l’analisi dei primi due capitoli, cerchiamo di contestualizzare la produzione Sky Original.

Siamo nella periferia di Buch, nella Germania dell’Est della Guerra Fredda. Il teatro di Hausen è un condominio spettrale in mezzo a boschi oscuri e nuvole di pioggia eterna, qui decidono di trasferirsi Jaschek e Juri, padre e figlio. L’uomo sarà il nuovo manutentore del maxi-condominio e allo stesso tempo occuperà uno degli appartamenti dello stesso. L’atmosfera è da subito spettrale e ci immerge nella realtà di soggetti al margine della società. Uomini e donne periferici, proprio come il palazzo in cui vivono, che sembrano non vivere in sincronia col tempo e con lo spazio fuori dal condominio. Da questo punto di partenza, comincia l’horror tedesco: dall’infelicità.

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Hausen, quando l’abisso si trasforma in mostro.

Nel quarto capitolo di Al di là del bene e del male intitolato precisamente Detti e intermezzi, Friedrich Nietzsche scrive parole che ancora oggi risuonano immortali: Chi combatte contro i mostri deve guardarsi dal non diventare egli stesso un mostro. E quando guardi a lungo in un abisso, anche l’abisso ti guarda dentro. L’abisso nel caso di Hausen è un mostro terrificante, è la materializzazione delle paure, è l’infelicità generata dalla condizione socio-economica che devasta gli abitanti del condominio e allo stesso tempo si nutre di se stessa per propagarsi tra le mura del grattacielo. La serie tv si apre in un abisso di nuvole e pioggia che la macchina di Jaschek e Juri sta solcando per raggiungere la ripida costruzione che gli si staglia davanti: la loro nuova casa.

Capiamo subito che c’è qualcosa che non va. Mentre il genitore recupera le chiavi lasciate dal precedente custode e viene a sapere da un’inquilina che la caldaia è rotta, Juri regala un’arancia a un senzatetto che sta frugando in un cassonetto. L’uomo, tremendamente inquietante, dice di essere “il vecchio gatto” e che si chiama Kater. Questi, prima chiede al ragazzo notizie di sua madre e poi gli lascia un misterioso regalo di benvenuto, uno strano oggetto nero di forma esagonale. Un regalo di cui suo padre non dovrà mai sapere niente. Da questo punto, la narrazione comincia lentamente a scorrere, accompagnata da un alone di inquietudine che pervade i protagonisti e gli spettatori.

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La paura si muove nelle mura, le mura assorbono l’infelicità.

La serie è di pregevole fattura e ricalca quella new wave tedesca che sta spingendo network e piattaforme streaming a puntare su prodotti come Dark e Babylon Berlin. Hausen infatti vive e si nutre di atmosfere asettiche e oscure, di dialoghi ermetici e scenografie al limite dell’espressionismo. Una sceneggiatura che si prende tutto il tempo, in alcuni casi anche troppo, per costruire personaggi e relazioni, ma senza mai dimenticare l’ambiente che non rimane sullo sfondo e anzi si incunea tra i personaggi quasi a voler diventare protagonista. Da queste prime due puntate sembra infatti che il mostro, l’abisso, non sia un qualcosa di tangibile, quanto l’ambiente stesso.

La serie per certi versi è autobiografica, visto che il soggetto è ispirato all’infanzia dell’autore, Til Kleinert, che nel 1984 andò a vivere con la madre in un enorme caseggiato di Berlino Est. Allo stesso tempo risente di palesi influenze dovute ai gusti del regista: apparizioni di bambini alla Shining, ambientazioni speculari a The Kingdom di Von Trier e vocabolario visivo simile a Possession, film capostipite del genere horror teutonico a cui lo stesso autore ha confessato di essersi ispirato. Il pilot e la seconda puntata di Hausen, per tanto, non cercano tanto di spaventarci con picchi di eventi paurosi oppure improvvise apparizioni mostruose. Non c’è una drammaturgia di balzi del cuore, quanto una costante angoscia che viaggia sul ciglio della nostra pelle che più di spaventarci ci mette a disagio, ci estrania.

Questo sembra essere l’obiettivo delle prime due puntate di Hausen.

Quello di farci calare nel claustrofobico mondo reale della serie tv. E la produzione lo fa in maniera diretta, parlando chiaro allo spettatore. Ci racconta la scomparsa di un bambino, ci fa intendere chi è buono e chi è cattivo, ci racconta che il palazzo è popolato da entità (come il barbone e il piccolo Dennis) e ci presenta sia la malattia (la melma nera), sia la cura (l’aceto).

Non è quindi questione di risolvere un enigma, Hausen mette le carte in tavola senza bluffare. Ci avverte che ciò che vedremo è solamente una metafora per fare sedimentare la paura nella nostra anima e farla crescere durante la visione della serie tv. Insomma, il contenitore assume la forma e il significato del contenuto, ci spaventiamo perché sappiamo che quello che vediamo non è frutto di fantasie, ma è realtà tangibile e tremenda. Se questo è l’inizio, non possiamo non essere curiosi di come sarà il resto.

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