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È davvero difficile raccontare la solitudine. Ogni volta che la sento bussare forte alla mia porta e provo a parlarne con qualcuno non riesco mai a esprimermi al meglio, a tirare fuori le parole giuste per descrivere come mi sento. Il risultato finale è che, per quanto io mi sforzi, l’essenza della solitudine che voglio buttare fuori resta dentro. A volte però capita anche che qualcuno o qualcosa ci venga in soccorso e, forse paradossalmente o forse perché è proprio così che deve essere, sappia raccontare molto meglio di quanto potremmo fare noi ciò che noi stessi proviamo. Nel mio caso questa volta ci ha pensato I Am Not Okay with This, una commedia nera targata Netflix che ho cominciato a vedere perché cercavo qualcosa per passare il tempo in pausa pranzo, non certo perché speravo potesse parlare proprio a me e di me. E invece, per l’ennesima volta da quando mi sono resa conto di essere una serie tv addicted, sono rimasta piacevolmente sorpresa da ciò che ho trovato prima ancora di sapere che lo stavo cercando.

La normalità di un racconto atipico

La protagonista di questa miniserie Netflix molto introspettiva che si può definire allo stesso tempo assurda ed estremamente normale è Sydney Novak. Interpretata da Sophia Lillis, Sydney è un’adolescente qualunque in una triste cittadina qualunque alle prese con un rapporto difficile con sua madre (nonché con il concetto generale di socialità) e con il lutto derivato dal suicidio di suo padre. Una ragazza che definisce se stessa “una noiosa diciassettenne bianca” ma che si vede ben presto costretta a fare i conti con qualcosa che ha l’aria di essere tutt’altro che noioso. Sydney si accorge infatti di essere in grado di fare cose utilizzando la sola forza del pensiero: alcuni li chiamerebbero superpoteri, altri doti paranormali, altri ancora strane capacità demoniache, ma lei in ogni caso deve farci i conti. Prima fa sanguinare il naso al fidanzato della sua migliore amica (sì, ok, i nasi che sanguinano da soli non sono poi così rari), poi crea un’enorme crepa su un muro (vabbè, le strutture vecchie possono fare brutti scherzi), poi ancora sradica una manciata di alberi dal suolo (no, questa proprio non ha giustificazioni). Fa anche cose molto più forti, ma di questo non parliamo.

I Am Not Okay with This
Sophia Lillis (640×360)

Insomma, Sydney non è proprio una noiosa adolescente bianca. I suoi poteri o come li si voglia chiamare, come nella migliore tradizione del fantasy, sono strettamente connessi alle emozioni che prova, principalmente alla tristezza, alla rabbia, alla frustrazione. E sì, anche al mostro interiore che è la solitudine. Tutto comincia in un periodo di particolare difficoltà, un periodo in cui Sydney deve affrontare una realtà che non le sta bene e fare i conti con il suo vero io, e si acuisce proprio nei momenti in cui il suo malessere si fa più profondo. In un mondo che le fa pensare continuamente I Am Not Okay with This, Sydney si rende conto che un suo solo pensiero può cambiare le sorti di tutto ciò che la circonda. E, diciamolo, non affronta questa cosa proprio nel migliore dei modi.

Da questo punto di vista, l’impronta del suo creatore Jonathan Entwistle si sente forte e chiara

Già ideatore e regista di un’altra commedia nera made in Netflix, The End of the F***ing World, Endwistle riporta anche in I Am Not Okay with This la difficoltà di stare al mondo. Situazioni familiari complesse e pensieri difficili con cui fare i conti sono il pane quotidiano di entrambe le serie e dei loro adolescenti protagonisti. James e Alyssa nella prima serie e il personaggio di Sophia Lillis nella seconda affrontano percorsi complicati caratterizzati dall’avere attorno un mondo a volte crudele e dalla volontà di non farne parte. A loro modo cercano tutti di scappare dalla realtà, chi fisicamente chi solo metaforicamente, ma devono poi fare i conti con quel senso di solitudine che è spesso parte integrante delle vite di chi al mondo a volte fa fatica a stare.

Tutto ciò che circonda questi giovani è percepito da loro come un universo popolato di persone che sembrano felici anche se non è detto che lo siano davvero, ma questo li fa sentire ancora più soli. Guardandosi attorno sembra che tutto giri normalmente, che gli altri vivano le loro vite con una serenità disarmante mentre loro non riescono a scendere a patti con una realtà con la quale non sono d’accordo e alla quale vogliono mettere fine. Affrontare il senso di inadeguatezza e di solitudine da soli non è facile, e se non si hanno gli strumenti giusti può arrivare a essere deleterio. Di questo Sydney Novak si rende conto proprio sul finale, facendo l’unica cosa che sperava non accadesse mai. E persa nella sua stessa solitudine non si rende conto di quella di sua madre, di Stanley e anche di Dina, del fatto che i loro percorsi non siano rosei come sembrano. E forse affrontarli insieme per davvero sarebbe stato più semplice per tutti.

I Am Not Okay With This
I Am Not Okay with This (640×360)

Chiunque sarebbe impazzito rendendosi conto di avere abilità soprannaturali

Impazzito sì, ma in un senso in qualche modo anche buono. Immagino che, se mi accorgessi di poter muovere le cose con la forza del pensiero, prima di tutto avrei un principio di infarto, ma poi cercherei di capire come controllare ciò che faccio. Proverei a prendermi cura di questo dono o di questa zavorra che dir si voglia, a non farmi sovrastare. L’obiettivo sarebbe raggiungere una situazione in cui sono io a controllare il potere e non il potere a controllare me. Selezionerei un paio di persone che non mi prenderebbero totalmente per pazza e cercherei di aprirmi con loro. Beh, Sydney fa poco o niente di tutto ciò. Non ne parla con nessuno, e il fatto che Stanley lo scopra la rende più nervosa che sollevata. Ogni tentativo, per quanto goffo, che fa per aiutare Sydney finisce con lei che per qualche ragione va via arrabbiata, pronta a non parlargli più per il resto della vita. Sydney ha l’occasione di non essere più sola ma non la coglie. Anzi, proprio non riesce a vederla.

Perché il punto è proprio questo, non si tratta tanto di essere concretamente soli quanto più di sentirsi tali. E quando soli ci si sente in modo davvero profondo, è difficile riuscire a capire quando c’è qualcuno al nostro fianco a tenderci la mano. Sydney ha Stanley, palesemente cotto di lei fin dal primo momento e pronto ad aiutarla, pur con i suoi modi strambi. Ha Dina, colei che in realtà è molto più della sua migliore amica, che in più di un’occasione cerca di essere quella confidente di cui Sydney non riesce ad approfittare. Ha sua madre che, pur avendo con lei un rapporto complesso, a un certo punto riesce a scoperchiare il vaso di dolore legato alla morte del marito e a sciogliere quei nodi che incrinavano la loro relazione. Sua madre è forse colei che le tende il salvagente più grande nel momento in cui le racconta la vita di quel padre che tanto manca a Sydney, quel padre che era molto più simile a lei di quanto lei stessa credesse. Ma Sydney, persa nei meandri bui della sua solitudine, non riesce a vedere questi spiragli di luce che le vengono messi sul cammino. E decide di accatastare le sue sofferenze senza però affrontarle davvero, arrivando al peggio.

I Am Not Okay with This racconta la storia di una solitudine e di una difficoltà così forti da uscire fuori sotto forma di pura energia

I Am Not Okay with This
Sophia Lillis (640×360)

Un’energia che Sydney non sa come canalizzare e che viene provocata talmente tanto da realizzare il suo timore più grande. Il finale della serie, lasciato volontariamente aperto, lascia spazio all’unica presenza che, al contrario di tutte le altre, la protagonista riesce a sentire pur non vedendola concretamente davanti a sé. Una presenza che potrebbe essere aiuto o minaccia, non è dato saperlo dato che questa commedia nera è stata cancellata da Netflix prima di potercelo raccontare. Ma quello che invece comunica in ogni sua singola puntata è quanto sia prezioso avere qualcuno su cui poter contare, qualcuno che ci resti accanto anche se scoprissimo di poter far volare i libri di un’intera biblioteca solo pensandolo. Ma soprattutto quanto sia importante riuscire ad accorgersene, a capirlo, e conservare quel barlume di speranza che, anche quando ci sentiamo davvero soli, ci fa voltare per renderci conto che in realtà non lo siamo. O che ci dia per lo meno la forza, nel caso in cui non riuscissimo a farlo da soli, di chiedere aiuto.