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“La profezia è come un mulo addestrato a metà. Sembra essere utile, ma quando poi ti fidi di lei, ti prende a calci in testa!”.
Queste le parole che Tyrion rivolge a Jorah Mormont nel libro quinto delle Cronache del Ghiaccio e del Fuoco, “Una Danza con i Draghi”.
Non nascondo che le prime sensazioni che ho provato sono state: rabbia, delusione, tristezza.
Mi sono sentito privato, derubato, di momenti che avrei voluto vivere attraverso i personaggi che da quasi una decade fanno parte della nostra vita, come se tali momenti mi, ci, fossero stati negati.
Negazione…


Una parola che non riesco a togliermi dalla testa, una promessa infranta.
Il Principe che venne Promesso, la profezia che permea il divenire dell’intera narrazione, pare essere smentita, tradita, quando in realtà si rivela, con coerenza ontologica, semplicemente incompiuta.
Ed ancor di più le parole di Tyrion sembrano abbattere la quarta parete per giungere a noi, lettori, spettatori.
Molti, offuscati dal pulviscolo di un’analisi superficiale, non ritrovano più, nello svolgimento degli eventi, gli elementi caratterizzanti Il Trono di Spade, complice l’erronea quanto biecamente esemplificativa convinzione che tutti i personaggi principali debbano necessariamente morire affinché sia mantenuta la qualità della narrazione.


Ma invero, se, proprio come una promessa non mantenuta, il fatto che Jon Snow non riesca ad affrontare ed annientare il Re della Notte, ferisce lo spettatore, è in questa ferita che è possibile riscoprire, ammesso che sia mai andata perduta, l’anima della grandiosa storia che abbiamo la fortuna di apprendere.
“La cosa più eroica che possiamo fare ora, è guardare in faccia la verità!”.
A tal proposito, le parole che Sansa rivolge a Tyrion nelle cripte sono molto più che un enunciato circostanziale, definiscono infatti la fenomenologia dell’eroe.
Un eroe atipico, in ritardo all’appuntamento con il suo destino.
La faccia di Viserion, la verità ineluttabile, ingiusta, del fallimento.
Jon Snow sa che La Grande Guerra è la sua guerra, come se tutto ciò che ha fatto lo avesse portato a quella notte – parole che suonano familiari – fronteggiare il Re della Notte, essere risolutivo.


Eppure muove affannato i suoi passi, nel vano tentativo di raggiungere Bran nel Parco degli Dèi, vede in difficoltà il suo amico Samwell, non può aiutarlo, non può aiutare nessuno, si fa strada a stento tra i non-morti, un soffitto crollato lo schiaccia come il terrore della disfatta, sa che ha poco tempo, ma il fuoco blu di Viserion lo rallenta, cedono le inferriate che aveva frapposto tra sé e i non-morti, tenta di sorprendere il drago ma il suo soffio distruttivo sta per investirlo ed è costretto a riparare per sfuggirvi, così d’un tratto tutto appare chiaro nonostante la coltre di fumo: è sconfitto.


È in quel momento che Jon compie l’atto eroico: si erge stremato al cospetto di Viserion, e guarda in faccia la verità in una resa indomita, un grido catartico di disperazione, impotenza e fallimento cui Jon Snow non è nuovo.
D’altronde avrebbe fallito contro Karl Tanner se non fosse stato per una delle mogli, nonché figlie, di Craster, aveva fallito agli occhi dei suoi confratelli come Lord Comandante dei Guardiani della Notte, dal momento che questi hanno attentato alla sua vita, avrebbe fallito nella conquista di Grande Inverno se Sansa non fosse accorsa con i Cavalieri della Valle nella Battaglia dei Bastardi, ha fallito come Re agli occhi del suo popolo, la gente del Nord, reo di essersi sottomesso.
Aveva appena fallito nella Lunga Notte, non essendo riuscito a proteggere Bran.
Ed in fondo va bene così.
Perché è stato Jon a costituire l’esercito dei vivi, ad unire i popoli: senza il suo altruismo i Bruti sarebbero stati annientati, senza la sua sottomissione Daenerys non si sarebbe mai unita alla causa, senza la sua tenacia Jaime non avrebbe mai visto un non-morto e dunque non avrebbe preso parte alla Grande Guerra.

L’eroismo di Jon Snow è lo stoicismo della sua etica, il suo essere – nonostante la profezia, la resurrezione e la rivelazione sulle sue origini – nient’altro che umano.
Chi nell’oscurità de La Lunga Notte vede poco, forse non ha la sensibilità di guardare oltre il buio, una scelta stilistica che non si limita ad esaltare il realismo di una battaglia notturna, ma che sublima nel presagio della Notte Eterna, assurgendo ad allegoria della perdita della memoria del mondo.
“Il Nord non dimentica!”.

Come noi dobbiamo tenere sempre a mente che è netto il confine tra errore ed aspettativa disattesa: possiamo tentare di comprendere ciò che ci viene mostrato, apprezzarne o meno le scelte narrative, ma mai pretendere di vedere ciò che avremmo voluto.


Alessio Salitore