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Better Call Saul 6×10 – Jimmy, Saul e Gene

C’è una domanda dopo questa 6×10 di Better Call Saul che continua a battere come una goccia ostinata e implacabile nei pensieri. È un tarlo assillante, un corvo nero che gracchia e fa perdere ogni certezza, che costringe a fare i conti con un abisso eccitante e spaventoso. Tutto il tempo questa domanda mi ha corroso, invaso, annerito ed è come una liberazione che inizialmente ho accolto la risposta. Sembrava la voce di Dio, quella che finalmente si ostina a parlarti dopo tutte le imprecazioni che le hai rivolto, quella voce che ti rivela il perché di tutto: del male, della sofferenza, del silenzio divino. Ma questa voce, no, non veniva da Dio, era una voce roca, fastidiosa, a tratti provocatoria e pronta a toglierti, quasi godendone, ogni certezza.

Io non l’ho più questo bisogno, perché muoio ogni attimo io, e rinasco nuovo e senza ricordi: vivo e intero, non più in me, ma in ogni cosa fuori.

Iniziava a dire così, questa voce, ma, me ne rendo conto, occorre andare con ordine, ripartire dalla domanda, ravvivare gli stimoli della risposta. E allora iniziamo, riavvolgiamo il nastro come ci suggerisce di fare il tasto rec nell’intro di questo episodio di Better Call Saul. Quel tasto rec che Gene preme e ripreme ogni sera, sospirando nel ricordo degli spot pubblicitari del fu Saul Goodman.

Cicero, Albuquerque, Omaha. Tre luoghi, tre mondi diversi, talvolta complementari, talaltra opposti.

Slippin’ Jimmy, Saul Goodman, Gene Takovic, maschere diverse di un unico uomo, di una persona che costantemente si svuota e si riempie nuovamente. Qual è l’uomo reale? Jimmy? Saul? Gene no di certo, ci saremmo detti, eppure la risposta, qualunque sia tra queste, è sbagliata.

Gene

Tre mondi, tre maschere, tre modi di ritrovare se stessi. Tre tappe di un cammino per nulla lineare che ci porta a chiederci, a interrogarci costantemente su chi sia davvero Jimmy McGill, sempre che esista un Jimmy McGill. A Cicero c’era il ragazzo, il piccolo truffatore che si divertiva tra raggiri arzigogolati utili a sbarcare il lunario. Là, a Cicero, una domanda lo aveva ossessionato: “Lupi e pecore. Decidi tu cosa vuoi diventare“. Aveva scelto di essere un lupo, aveva scelto come Nacho, Mike, Gustavo, la via più desertica e remunerativa. Ma nella piccola Cicero non era che un pesce in una boccia, destinato per sempre a rimanere un con-man di strada, geniale, certo, ma poco più che un borseggiatore.

E allora ecco il grande mare, Albuquerque, là dove poter crescere, là dove diventare qualcosa di più, qualcosa di altro. “… Muoio ogni attimo io, e rinasco nuovo e senza ricordi: vivo e intero, non più in me, ma in ogni cosa fuori“. Quella realtà esterna, la nuova realtà esterna di Albuquerque lo cambia, lo eleva ad avvocato, a uomo di Legge, proprio lui che con la Legge c’aveva sempre fatto la guerra. Era rinato nuovo e senza ricordi, senza più una moglie e una “spalla”, ma in lui era rimasta la scelta, la scelta di essere un lupo: così diventa passo dopo passo, scavando dentro di sé, sempre più vuoto, sempre qualcosa di altro. Non è più in lui ma nella realtà che lo circonda. In quella città fatta di approfittatori, smaliziati avvocati e criminali a cavallo col Messico lui si modella su tutti loro dandosi una nuova immagine.

Una nuova moglie, una nuova “spalla”.

Si spoglia di Slippin’ Jimmy, cambia, anche visivamente, negli abiti pacchiani e variopinti, negli atteggiamenti. Perfino, naturalmente, nel nome. “Per me stesso io non ho altra realtà se non nella forma che riesco a darmi. E come? Ma costruendomi, appunto“. Tutto in Saul Goodman è costruito, pensato a tavolino per riempire il vuoto lasciato da ciò che era un tempo e ora non è più. Svuotarsi di sé e ricostruirsi, infatti, implica una cosa: darsi nuovi contenuti.

Better Call Saul

Lo fa fagocitando tutto ciò che gli sta attorno: dell’amico Mario conserva il pacchiano anello, del fratello l’espressione che abbiamo ascoltato per ultima nella scorsa puntata di Better Call Saul: “Let justice be done though the heavens fall“. Da Mike la convinzione che “Un giorno ci sveglieremo, ci laveremo i denti e andremo a lavoro e a un certo punto ci renderemo conto all’improvviso di non averci pensato per niente, a nulla, sarà allora che sapremo, sapremo di poter dimenticare“. Glie lo aveva detto Ehrmantraut nella 5×09 di Better Call Saul, lo ripete lui a Kim nella 6×09. Tutto fagocita, di tutto si appropria, anche delle emozioni. Perché quella frase per Mike si ammantava di un senso profondo, della speranza di superare la perdita del figlio.

Tutto con Saul diventa maschera, un ridicolo scimmiottare modi, espressioni e sentimenti di altri. Come se lui non fosse in grado di provarli, come se la maschera avesse bisogno di contenuti di altri per essere viva, reale. Ma una maschera rimane una maschera. E tutto non è che imitazione. E allora, qual è il vero Jimmy McGill? Jimmy, Saul, Gene.

Non mi conoscevo affatto, non avevo per me alcuna realtà mia propria, ero in uno stato come di illusione continua, quasi fluido, malleabile; mi conoscevano gli altri, ciascuno a suo modo, secondo la realtà che m’avevano data.

Ognuno ha un’immagine diversa di lui, una diversa maschera di Saul Goodman o di Jimmy McGill.

Una per Chuck, un’altra per Kim, un’altra ancora per Lalo, per Mike, per i criminali. Uno, nessuno, centomila. Jimmy, Saul, Gene, si modella sulle persone, si adatta a loro e ai luoghi in cui si trova. Così, inevitabilmente nella fredda, provinciale e cortese Omaha non può che essere un semplice impiegato senza prospettive. Saul Goodman si è svuotato di nuovo, ha eroso via la precedente maschera e se n’è messa una nuova, sia negli abiti che nell’aspetto e nei modi.

Better Call Saul

Io mi costruisco di continuo e vi costruisco, e voi fate altrettanto. E la costruzione dura finché non si sgretoli il materiale dei nostri sentimenti e finché duri il cemento della nostra volontà“. A sgretolare Jimmy e lasciare spazio al Saul Goodman pienamente di Breaking Bad è proprio il sentimento, quell’amore di Kim che viene meno, quella coscienza che lo abbandona e non lo influenza più. Così, senza il cemento dell’amore, la volontà passa alla successiva maschera e Jimmy si ricostruisce.

È di nuovo la volontà, o meglio la necessità a decostruirlo ancora, a renderlo infine Gene Takovic che è altro, maschera nuova e per certi versi opposta a quella di Saul. Non è un caso che dopo il complesso raggiro che mette in piedi in questa 6×10 di Better Call Saul si prende un istante per tirare il fiato, come se non l’avesse mai fatto, come se Gene non fosse abituato a tanta tensione criminale. Non solo, lo vediamo perfino indugiare, avere un dubbio morale, impensabile per la maschera di Saul, quando l’anziana Marion gli dice commossa: “Sei un’influenza positiva, Gene“. È l’esatto opposto, naturalmente, perché Gene è “veleno” (citando Kim) per il figlio di Marion così come lo era stato per Chuck, Howard e Kim stessa.

Jimmy, Saul, Gene.

Eppure, c’è questo sussulto, questo giro a vuoto, la stessa “debolezza” morale che aveva mostrato, remissivo, in una delle precedenti parti in bianco e nero, quando aveva indicato alla polizia dove si era nascosto un piccolo delinquentello salvo poi, con un rigurgito d’orgoglio urlare: “Non dire nulla, hai capito? Chiama un avvocato!“.

Better Call Saul

Ero in uno stato come di illusione continua, quasi fluido, malleabile“, sembra dirci. Jimmy non ha una forma, si modella sui luoghi, sulle realtà, sulle persone che ha di fronte, “Non più in me, ma in ogni cosa fuori“. In funzione della sua maschera non ruba sentimenti e convinzioni soltanto agli altri ma anche al precedente sé. Quando per impedire alla guardia notturna di girarsi verso i display inizia a lagnarsi della sua vita lo fa dicendo quella che per Saul (o Jimmy) sarebbe una verità: “Io non ho nessuno“. E singhiozzando menziona la perdita del fratello.

Jimmy, Saul, Gene. Jimmy è Saul tanto quanto è Gene, forse solo un po’ di più, perché quest’ultima è una maschera di cui è meno orgoglioso, in cui si riconosce di meno ma che comunque indossa e si è dovuto costruire. E sulla quale adatta i suoi comportamenti (goffi e incerti) e pensieri. Ed è quest’ultima maschera che non sembra voler abbandonare. Il “cemento della volontà” resiste.

Gene ha scelto di rimanere Gene, di non svuotarsi di nuovo.

Era a un passo dal farlo, aveva già fatto la chiamata al “tizio degli aspirapolveri” ma poi la volontà lo trattiene. Perché lo fa? Perché la maschera tenta di sopravvivere alla sua dissoluzione? Non certo per la vita che conduce o per la bellezza dei luoghi. No, forse, dietro questo desiderio di tenere duro non c’è solo il “cemento della volontà”, il piacere del raggiro, ma anche “il materiale dei nostri sentimenti”, che non si è sgretolato del tutto. Forse, in un recesso oscuro dietro alle maschere sopravvive l’amore per Kim e la speranza di rivederla in quel Nebraska che le ha dato i natali. Volontà e sentimenti. Amore e inganno. Jimmy, Saul, Gene.

Gene Takovic

Ecco, se c’è qualcosa, una costante che attraversa ogni maschera in Better Call Saul è questa, nient’altro che questo inganno, la scelta di partenza, il peccato originario che lo fa essere, sempre, anche nella più modesta delle maschere, l’ineguagliabile con-man, il truffatore di tutti e tre i mondi in cui ha vissuto. Ma, inevitabilmente, allora torniamo alla domanda, a questo assillante dilemma: qual è il vero Jimmy? Jimmy, Saul o Gene?

Una realtà non ci fu data e non c’è, ma dobbiamo farcela noi, se vogliamo essere: e non sarà mai una per tutti, una per sempre, ma di continuo e infinitamente mutabile“, mi risponde quella voce con fare quasi canzonatorio. E mi rendo conto che è vero, che Jimmy è uno, nessuno e centomila insieme. Non c’è una realtà assoluta ma un continuo mutare, un continuo adattarsi ai luoghi, alle persone, alle situazioni. Come può esserci un unico Jimmy McGill quando quest’uomo vive tre vite diverse in tre ambienti e situazioni diverse?

Questa sembra essere la risposta.

Iniziamo a togliere una maschera e dietro ne scopriamo un’altra. Procediamo ancora, un po’ dubbiosi e vagamente inquieti. Là sotto sta ancora un’altra maschera. Sappiamo adesso, con certezza, che ci siamo, che stiamo ripetendo il gesto per l’ultima volta. Esitiamo prima di procedere, prima di rivelare a noi stessi cosa c’è dietro il volto di Gene, Saul e Jimmy. Alziamo la maschera.

Saul Gene

Ma non c’è nulla tranne l’abisso, il vuoto. La perfetta assenza, non-esistenza. Chi siamo, chi è Jimmy? Non è Saul, non è Slippin’ Jimmy, non è Gene. O forse è tutto questo insieme: un po’ dell’uno, un po’ dell’altro, brandelli di una persona che fatica a trovare se stesso. Dovrà farsi lui una realtà, aggrapparsi a una costante , a una di quelle che hanno attraversato la sua vita: o l’inganno o l’amore. O “Il blu o il nero“, come afferma un cliente dei grandi magazzini sul finire di questo episodio di Better Call Saul. Dovrà farlo per trovare una nuova maschera da indossare, stavolta forse più reale, più impressa nella pelle, un marchio finale. Per non essere più Jimmy, Saul e Gene ma un po’ dell’uno e dell’altro o di nessuno di essi. Contemporaneamente, fatalmente, uno, nessuno, centomila.

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