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Anna: la recensione della struggente Serie Tv Sky di Niccolò Ammaniti

Attenzione: evitate la lettura se non volete imbattervi in spoiler sulla prima stagione di Anna

A questo punto diventa possibile domandarselo legittimamente: Niccolò Ammaniti è più bravo da scrittore o da regista? Sembra assurdo porsi l’interrogativo, visto che parliamo di uno dei migliori autori letterari italiani del nostro tempo, vincitore di un Premio Strega (nel 2007) e creatore di romanzi sempre osannati da critica e pubblico, ma non lo è. Non lo è minimamente. Il dubbio era nato già nel 2018, quando concepì e diresse quella meraviglia de Il Miracolo. E si riafferma oggi con maggiore forza, dopo aver tirato fuori una vera e propria genialata da ogni punto di vista possibile.

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La genialata ha un titolo semplicissimo, essenziale e solo apparentemente pigro: Anna. Ma l’essenzialità si ferma qua, perché quel nome tanto comune si schiude in un’opera mastodontica, dirompente, coraggiosa e capace di renderci orgogliosi della nostra serialità. Come spesso accade con le serie tv tirate fuori da Sky, mediamente ben distanti dagli standard qualitativi a cui il nostro Paese ci ha purtroppo abituato negli ultimi trent’anni. E che si sublima con una miniserie mini solo nel formato (sei episodi da 50/60 minuti) e maxi in tutto il resto: nell’audacia narrativa che ci porta a vedere il mondo dei bambini con occhi un po’ diversi, nelle suggestioni di una trama che procede lentamente senza mai stancare in alcun modo e, più di tutto, nel fare dell’ennesimo soggetto ambientato in un scenario post-apocalittico un contenitore destinato a raccontare altro.

Ma non solo, perché Ammaniti prende in mano la regia e lo fa col piglio di un artista vero a 360 gradi, non certo di uno scrittore prestato occasionalmente al microcosmo delle immagini televisive. L’avremmo capito, se si fosse limitato a una direzione scolastica funzionale all’accompagnamento delle parole. Ma Ammaniti è Ammaniti, non si accontenta mai del compitino. E si dimostra per questo un regista vero, uno di quelli che sembrano essere “del mestiere” da una vita. Al punto da mettere talvolta le parole, le sue amatissime parole, quasi in secondo piano. Quasi volessero assecondare in qualche modo le immagini e le suggestioni visive, mai come in questo caso significative e narrativamente rilevanti.

Anna, in sostanza, è una scommessa vinta. Una di quelle che sembravano persino azzardate, visto il periodo storico che stiamo vivendo e in cui pareva non esserci spazio per una storia incentrata su una pandemia (se n’è parlato diffusamente nel corso della conferenza stampa di presentazione), ma che il pubblico e la critica stanno apprezzando con forza. Personalmente, c’erano pochi dubbi: dopo aver visto i primi due episodi (da noi recensiti in anteprima qualche giorno fa e in cui si sono palesati i temi e gli elementi cardine della serie), erano già evidenti i punti di forza di Anna, e la sua capacità di raccontare qualcosa di nuovo all’interno della nostra serialità (e non solo della nostra).

Ma più va avanti, più Anna supera i confini del romanzo da cui è tratta, si schiude in una narrazione cruda, struggente, angosciante e allo stesso tempo pregna di speranza e voglia di rinascita, sentimenti che non possiamo non condividere e vivere a nostra volta nei giorni in cui stiamo cercando faticosamente di ripartire. La serie tv Original Sky sintetizza questo contrasto solo apparentemente irrisolvibile con scene disturbanti che raggelano il sangue (si pensi anche solo ai momenti in cui Anna perde un braccio o al cadavere di sua madre in decomposizione ora dopo ora per cento lunghissimi giorni, ma di esempi del genere potremmo farne a decine) alternate ad altre cariche di malinconica bellezza (l’elefante sulla spiaggia che rappresenta l’ultima porta dell’Inferno prima del viaggio verso una nuova vita).

Contrasto che si porta avanti fino alla fine, negli ultimi due episodi: dopo le terribili esperienze vissute al cospetto della terribile (e convincentissima) Angelica, sintesi perfetta di un nuovo mondo che porta con sé le peggiori storture del vecchio ormai alle spalle, prima Anna si ritrova ad accompagnare il suo Pietro nell’ultimo viaggio verso le pendici dell’Etna, in cui l’incubo e il sogno sembrano confondersi costantemente e con grande coerenza, mentre poi fa altrettanto col fratellino Astor, ma al contrario. Non più un ultimo viaggio, un viatico che conduce dritto verso la morte, ma un’odissea che riporta tra le braccia della vita.

Dalla Sicilia senza tempo il cui il “continente” diventa un’anacronistica “Italia” (come se la Sicilia non ne facesse parte) all’ingresso di un Purgatorio che profuma di vita e nuove possibilità. Incarnate da un’immagine semplice quanto un titolo di quattro lettere: non più gli elefanti e gli astronauti, le chimere blu e gli scenari più surreali, ma una madre che accoglie sul suo seno un neonato. Quasi un cliché che in Anna assume però il respiro della rivoluzione. Un’immagine potentissima, ma non la più significativa dell’intera serie.

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Per trovare l’immagine più importante in assoluto, ancora più di quelle che ci ha regalato lo struggente finale, bisogna tornare indietro di qualche minuto. Al momento in cui Anna e Astor stanno attraversando quel mare che separa l’incubo dal sogno. Esattamente nell’istante in cui il fratellino della protagonista fa cadere in acqua l’ultimo elemento fisico che connetteva le lezioni del passato al cantiere del futuro: il cosiddetto Libro delle Cose importanti, scritto dalla madre di Anna per offrire ai figli tutti gli insegnamenti necessari per sopravvivere dopo la sua morte.

Come avevamo già sottolineato nella recensione dei primi due episodi, quel libro ha una funzione narrativa centralissima e decisiva, ma nel momento in cui si perde nel mare, Anna non si dispera e non ne fa assolutamente un problema: ne scriverà un altro, a dimostrazione dell’assimilazione conclusa delle lezioni dopo quattro anni, e del suo essere pronta a essere madre, figlia e sorella in una nuova vita. Costruttrice di una realtà più felice in cui il passato è da mettere alle spalle senza essere mai accantonato. Perché non c’è innovazione, senza tradizione. Ed è questa la vera essenza di Anna e del variegato microcosmo a cui ha dato vita: non raccontare la solita storia distopica, non raccontare un mondo in fiamme, non spettacolarizzare niente per il solo piacere dell’intrattenimento, ma delineare un mondo in cui si cerca di tornare a respirare.

Per quanto possa essere angosciante e difficile assistere alla brutalità di cui possono essere capaci dei normalissimi bambini e, ancor di più, alle terribili conseguenze di una pandemia ingestibile che non lascia scampo a ogni singolo adulto e abbandona delle piccole anime in balia di se stessi, Anna ci lascia con un sorriso. Un sorriso amaro che sente tutto il peso di ogni singola tragedia vissuta, ma che guarda al sole come si guarda a un’alba. Con la speranza che il prossimo tramonto non ceda il passo all’ennesima notte. Vogliamo crederci, anche dopo aver spento lo schermo.

Antonio Casu

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