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La rivelazione televisiva di questa primavera in quarantena non può che portare il nome di Unorthodox, serie tv di produzione inglese e tedesca disponibile su Netflix dal 26 marzo scorso. Fin da subito se n’è parlato tantissimo, con un pubblico che l’ha accolta per lo più tra generali apprezzamenti e acclamazioni. Si è parlato di un piccolo gioiello di Netflix (come avevamo detto qui), a indicare come l’esperimento della piattaforma si possa dire riuscito. Per lo meno in termini di accoglienza. Ma possiamo dire altrettanto della struttura dell’esperimento stesso?

Unorthodox è indubbiamente una bella serie tv. Non innovativa in senso stretto ma sicuramente coraggiosa. Ha innumerevoli pregi, tuttavia anche un gran numero di lacune di cui forse non si è parlato abbastanza.

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La ventata di novità portata dalla miniserie, infatti, l’ha dotata di un giubbotto di salvataggio spesso abbastanza da far rimbalzare lontano le svariate ragioni con cui si potrebbe argomentare sul perché Unorthodox sia una bella serie tv ma non un capolavoro. Parliamo di una miniserie, certo, quindi breve e concisa. Ma forse troppo, e a volte invece troppo poco.

La serie è “liberamente ispirata” alla storia vera di Deborah Feldman, raccontata nel libro autobiografico del 2012 Ex ortodossa. Il rifiuto scandaloso delle mie radici chassidiche. Chi ha letto il libro sa che parliamo di libera ispirazione poiché quanto visto nella serie tv non corrisponde esattamente a quanto scritto nel libro se non per alcuni elementi fondamentali. La vita da ebrea osservante a Williamsburg, il matrimonio, il bambino e la fuga a Berlino sono elementi comuni alle due narrazioni. Per quanto riguarda il resto invece la serie tv è andata per lo più a ruota libera.

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E il problema principale della stessa si presenta nella decisione di raccontare una storia in modo tanto stringente da lasciar cadere nel dimenticatoio diverse questioni. Nonché di raccontare in modo piuttosto ingenuo “un’avventura” tutt’altro che semplice.

Nella prima categoria potremmo inserire una serie di elementi narrativi privati dell’approfondimento che meritavano. Primo fra tutti il personaggio di Moishe, al quale viene affidato un ruolo importantissimo. Moishe infatti rappresenta in modo concreto ma anche metaforico mente e azione dell’ala più fanatica della comunità ortodossa. Lo capiamo attraverso le parole della madre di Esty al ricordo della sua fuga: “mandarono un Moishe anche allora”. A sottolineare ulteriormente il carattere oppressivo e limitante, poco incline a lasciar andare i propri, della comunità religiosa al centro del racconto. Ma non solo.

Da quel poco che vediamo di Moishe al di fuori della ricerca di Esty, capiamo come il ragazzo abbia una certa passione per il gioco d’azzardo e altri vizi poco ortodossi. E sicuramente un debito da ripagare, come menzionato dal rabbino che lo invia alla ricerca di Esty promettendo un “saldo del debito”. Moishe rappresenta dunque anche l’ipocrisia di fondo di questa fascia più fanatica della comunità. Le contraddizioni, l’incoerenza e le azioni che cozzano con il loro predicare.

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Per tutte queste ragioni è un peccato che Unorthodox si sia lasciata sfuggire l’occasione di approfondire un personaggio simile e altri che risultano fondamentali alla storia più di quanto si possa immaginare.

Il più grande pregio di Unorthodox è sicuramente la capacità di aver raccontato con la giusta delicatezza una realtà del nostro mondo difficile da descrivere. Ma lasciare delle lacune narrative nella caratterizzazione di alcuni personaggi e delle rispettive storie potrebbe non esser stata la scelta più saggia quando si arriva a un discorso qualitativo.

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In un simile racconto delineare i contesti in cui sono inseriti i personaggi – positivi o negativi che siano – è fondamentale al fine di favorire una più obiettiva e veritiera comprensione del quadro generale raccontato. In special modo se dalla narrazione c’è qualcuno che esce peggio di qualcun altro.

Certo si potrebbe pensare che in un’ipotetica seconda stagione tutte le domande senza risposta e i mancati approfondimenti verranno colmati. Ma Unorthodox nasce come miniserie e, stando alle dichiarazioni dell’autrice stessa – Anna Winger – resterà tale. La scrittrice e produttrice dello show infatti, in una recente intervista ha dichiarato di non avere al momento alcuna intenzione di continuare a lavorare sull’adattamento del libro della Feldman, ritenendo che tutto sia già stato raccontato nei quattro episodi andati in onda.

Un’affermazione singolare se si pensa a tutte le questioni lasciate in sospeso. Ma non solo. Si tratta di affermazioni che fanno storcere il naso anche a chi ha notato con quanta frivolezza siano state trattate le vicende di Esty dal suo atterraggio a Berlino in poi.

In tal senso infatti la scrittura di Unorthodox ha adottato un approccio decisamente semplicistico nel raccontare la vita della protagonista nella capitale tedesca.

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Questa parte del racconto infatti è stracolma di elementi che rasentano l’assurdo e che stridono parecchio con l’obiettivo della serie di raccontare la cruda verità di una storia vera (seppur romanzata), in quanto a risentirne sono realismo e credibilità del racconto. Pensate ad esempio alla semplicità con cui una ragazza che ha vissuto per tutta la vita in una campana di vetro riesce a muoversi in una città come Berlino senza mappa e senza cellulare. O ai rapidi sviluppi che la portano nel gruppo di giovani studenti del conservatorio.

Bisogna tener presente che l’intera storia si svolge nel giro di pochissimi giorni. Giorni in cui Esty ha tempo di: incontrare dei ragazzi random, farseli amici per la pelle, scoprire di una borsa di studio del conservatorio, fare domanda e ottenere l’audizione. Nemmeno nella superfunzionante Berlino un conservatorio riesce a tenere un’audizione con musicisti di fama internazionale (come specificato nella serie stessa) per chi ne ha fatto domanda due giorni prima.

Per non parlare delle dinamiche stesse relative a cose più pratiche come incontri casuali in club, bar e strade. Spostamenti e pernottamenti sono oltre il limite dell’assurdo considerando che parliamo di una metropoli e non di un borgo dell’Appennino.

La storia è raccontata in modo troppo sbrigativo perché si possa considerare credibile fino in fondo. E questo (come già detto) stride col cinico realismo con cui Unorthodox si propone di raccontare la fuga da una realtà che invece è vera e palpabile.

E infatti tutto funziona finché al centro della narrazione c’è l’estrema difficoltà incontrata da Esty per fuggire. Con ostacoli che si palesano in cose semplici e concrete, come la mancanza di una borsa da portare con sé per non destare sospetti. O la lunghezza dell’attesa per metter da parte i soldi necessari alla fuga. La sua disperazione alla presa di coscienza del divario gigantesco tra la sua formazione culturale e quella necessaria a navigare da sola nel mondo reale, quello al di fuori della comunità di Williamsburg.

L’approccio semplicistico che esula da questi elementi rappresenta forse il vero rimpianto di Unorthodox. La mancanza di realismo che si divide tra assurdità e cringe (con la scena dell’audizione in cima alla classifica). Una mancanza colmata parzialmente per lo più dalla straordinaria interpretazione di Shira Haas e dall’utilizzo dello yiddish come lingua principale. E supportata dall’innegabile curiosità suscitata da un tema che è stato trattato solo in poche altre produzioni.

Un vero peccato se si pensa a quanto rivoluzionaria sarebbe stata una miniserie del genere. Se solo avesse osato ancora di più.

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