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Unorthodox: (anti)favola contemporanea

Toccante, emotiva, dal ritmo veloce e con attori nuovi e di talento: Unorthodox è piaciuta (quasi) a tutti.

In tanti abbiamo seguito con apprensione le vicende di Esther “Esty” Shapiro, in fuga dalla comunità ebraica ultra-ortodossa di Williamsburg (New York). Esty ha solo 19 anni ed è già sposata da più di un anno con Yanky Shapiro, giovane della comunità. Yanky non è un uomo cattivo: è un uomo semplice, che non ha mai messo in dubbio la sua fede e la sua comunità, e quindi crede che sua moglie sia un oggetto di suo possesso e come tale non abbia possibilità di agire per autodeterminarsi.

Esty è bloccata in una vita in cui non avrà mai libertà di parola, non potrà mai studiare il tanto amato pianoforte, non potrà mai esistere.

Decide di scappare. Ed è così che inizia Unorthodox.

[Da qui, invece, inizia lo spoiler]

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Unorthodox è una favola contemporanea.

Comincia quando una situazione imprevista fa prendere a Esty il suo destino in mano e le fa decidere di “varcare la soglia” della storia: Yanky chiede il divorzio ed Esty decide di fuggire grazie alla fidata insegnante di musica, che le impartisce di nascosto lezioni di piano (Vogler ringrazia per l’utilizzo preciso della struttura del viaggio dell’eroe).

Poi, scusatemi, da qui qualcosa non torna: da New York, Esty va a Berlino e praticamente la prima persona che incontra è un musicista (ricordate che Esty ama profondamente la musica?).

Coincidenze?

Il seguito è ancora più incredibile: Esty segue il musicista fino al conservatorio dove si commuove ascoltando le prove generali dell’orchestra. Casualmente il mattino successivo Esty incontra il direttore dell’istituto che senza un motivo particolare si sbatte come un pollo per farle fare un’audizione per l’ammissione alla scuola con borsa di studio.

Da questo momento in poi, lo spettatore non dubita più, nemmeno per un momento, che Esty ce la farà: praticamente dalla seconda puntata (cioè metà serie), noi già sappiamo nel profondo del nostro cuore che Esty entrerà al conservatorio, si stabilirà a Berlino e quei due sfigati che la stanno inseguendo (il marito Yanky e il cugino Moishe) se ne torneranno con la coda fra le gambe da dove sono venuti.

E sapete perché lo sappiamo già? Perché ci sono i cattivi e i buoni: Williamsburg cattiva, Berlino buona.

I cattivi di Berlino, se così possiamo chiamarli, sono solo la segretaria della scuola e la violinista Yael che, sempre per il bene di Esty, le dicono con troppa crudezza che non è abbastanza brava da essere ammessa al conservatorio. Sono dei cattivi, tra l’altro, a cui non diamo credito, se non altro perché subito dopo il resto dei personaggi si fa in quattro per contraddirli e aiutare la povera Esty. Ma ve li ricordate i villain di Handmaid’s Tale?

L’unica sfumatura, bella davvero, è quella di Yanky, il marito di Esty: Yanky non è malvagio, solo non ci ha capito niente.

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Lui si sta comportando come gli hanno sempre detto. Non è mai stato abbastanza sveglio da mettere in discussione niente, men che meno le parole della sua onnipresente mamma. È smarrito, confuso, a suo modo ama Esty, ma la vuole come dovrebbe essere: arresa, inoffensiva, una cosa morta.

Le lacrime di Yanky, sì che mi fanno male, sono le lacrime di una dualità che non si può risolvere, di un dolore puro e destinato a rimanere nel tempo, che non ha chance di risolversi.

È di questa dualità irriducibile che si nutre la serialità. Pensate a Walter White/Heisenberg, a Don Draper/Dick Withman, a June Osborne/Offred, anche solo a BoJack Horseman, mezzo uomo e mezzo cavallo: io sono uno e un altro, agisco in conseguenza della mia dualità, non potrò mai essere diverso. E ne sono lacerato.

In Esty, questa dualità non c’è: nel momento stesso in cui varca la soglia dell’aeroporto JFK, lei è un’altra. Ha risolto la dualità.

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A questo punto la storia deve solo andare dritta come un fuso verso la risoluzione degli impedimenti che impediscono a Esty di vivere la sua nuova identità. Per questo dico, nel bene o nel male, che è una favola contemporanea.

Dritta come una freccia scoccata, Unorthodox va dal male al bene, da A a B, senza esitare mai. Ed è proprio questo che la rende piacevole, emozionante, ma non grande e immortale.

Qui la freccia la scocco io: e se Unorthodox avesse avuto più tempo e più spazio rispetto a quello permesso da queste striminzite 4 puntate?

Avrebbe forse avuto modo di approfondire più i personaggi e far germogliare la dualità? Avrebbe permesso alla storia di sbavare un po’ e sporcarsi, facendo perdere le redini allo spettatore e quindi rendendo anche più credibili quelle coincidenze che inevitabilmente si presentano?

(Io credo proprio di sì.)

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