Vai al contenuto
Serie TV - Hall of Series » The Son » The Son – La Recensione della seconda stagione del western con Pierce Brosnan

The Son – La Recensione della seconda stagione del western con Pierce Brosnan

The Son è tornata con la seconda stagione lo scorso 10 maggio, su Sky Atlantic e NOW, più spietata di prima. Thieteti è ancora in piedi, malgrado tutto. Tratta dall’omonimo romanzo best seller di Philipp Meyer, il western drammatico AMC del 2017 è arrivato in Italia solo nel 2021, senza troppo clamore. Il polverone alzato dai McCullough, purtroppo, non ha ancora travolto il grande pubblico, sebbene il nome altisonante del protagonista della vicenda, Pierce Brosnan, doppiato da Luca Ward. Un personaggio enigmatico, spesso odioso, leggendario, sempre spietato. Un individuo che andrebbe molto d’accordo con Walter White, un altro elemento naturale che sfugge alle leggi dell’uomo. Eli McCullough è imperscrutabile, forse perché abbiamo modo di conoscerlo con un dosaggio lento e misurato, attraverso il continuo sovrapporsi di ciò che era e ciò che è diventato. Una narrazione costruita su doppio livello, in cui l’azione non guida la trama, ma l’impietoso confronto tra passato, presente e futuro. The Son ha un ritmo placido, ma inquieto. A tratti monumentale, la serie ideata da Philipp Meyer, Lee Shipman e Brian McGreevy è sorretta da personaggi imperfetti, difettosi, ognuno messo a fuoco con estrema accuratezza. La prima stagione ha conquistato il plauso del pubblico internazionale, ma la maggioranza della critica non sembra ancora esserne troppo convinta. L’aggregatore Rotten Tomatoes ha totalizzato un 87% di gradimento degli spettatori contro un misero 52% della critica mentre su IMDb, The Son ha ottenuto uno score di 7,4 su 10. Le recensioni degli esperti sono contrastanti e per qualche strana ragione hanno contribuito ad allontanare lo spettatore scettico, dissuaso soprattutto dai continui confronti con Yellowstone, la serie che ha riportato in voga l’eterna battaglia fra indiani e cowboy con qualche tocco di modernità. The Son non è Yellowstone così come Pierce Brosnan non è Kevin Costner. Ciò non implica però che la qualità narrativa o recitativa del western dei McCullough sia inferiore. Una storia che, forse, non racconta nemmeno di un’America lontana, ma dei difetti congeniti dell’umanità, come l’avidità, ad esempio.

**ATTENZIONE, seguono SPOILER delle due stagioni di The Son**

Eli McCullough è tornato, ma di Thieteti non c’è più traccia

The son 2

Gli episodi della nuova stagione ripercorrono l’eredità dei McCullough attraverso quasi 150 anni e tre generazioni. C’è il passato, metà Ottocento; “il presente”, cioè il 1915; il futuro, con l’impero della Jeannie 85enne (Lois Smith), ovvero il 1988. Nella prima stagione Pierce Brosnan ha camminato su un sentiero parallelo al fianco dell’attore Jacob Lofland (Justified), che interpreta il ruolo del vecchio barbuto da giovane, in mezzo ai Comanche. La seconda riprende il cammino del giovane e del vecchio, ma lo porta a un livello ancora più profondo in cui quello “stupido ragazzo bianco” svanisce. La serie racconta dunque la storia della famiglia texana dei McCullough a partire dal capofamiglia – il figlio del Texas – e l’impero che ha costruito con determinazione e sangue. Quello stesso impero che nella prima stagione era in procinto di sgretolarsi. Come abbiamo visto, dopo un momento di scrupoli e indugio del vecchio, McCullough padre e figlio ricorrono alla soluzione più brutale e vile per sottrarre le terre ai García. L’unico errore di cui si pentirà Eli sarà quello di aver lasciato in vita Maria, la quale è fuggita in Messico con l’altro figlio del vecchio, Pete.

La vendetta di Maria García (Paola Núñez), il tentativo di far fruttare l’oro nero e il futuro, gli anni Ottanta, con quel misterioso giovanotto messicano, Ulises Gonzales (Alex Hernandez), che ronza intorno all’anziana Jeannie, sono i presupposti del nuovo capitolo. Proprio come nella prima stagione, anche nella seconda ci troviamo a seguire la storia da più angolazioni, dove il passato serve a creare il giusto contesto. Il nervo pulsante della storia, però, è di nuovo la trasformazione del protagonista. Due versioni della stessa persona, speculari, controverse e affascinanti. I flashback di The Son non sono un espediente narrativo originale, messo là tanto per movimentare la narrazione. Sono la sua essenza. Un’ossatura compatta che conferisce alle azioni del presente un significato più profondo. Capiremo tutto, prima o poi. Ma al momento opportuno. Un gioco di intrecci e di solletichi mentali che non appesantiscono, ma rendono la trama più stuzzicante. Nel passato troviamo un ragazzo spaventato, alla ricerca di sé stesso. Un adolescente che a soli tredici anni ha assistito allo sterminio della sua famiglia da parte della stessa tribù di nativi americani che più tardi considererà la sua famiglia. Nel presente, invece, siamo al cospetto di un uomo bieco, ma innovativo: una leggenda vivete.

Una seconda stagione per risolvere ogni dubbio sollevato dalla prima.

Toshaway Zahn McClarnon

Dalle azioni che Eli compie nel presente, infatti, fatichiamo a riconoscere quell’adolescente spaventato, dolce e sensibile. Come ha fatto Thieteti a trasformarsi in quell’avido e spietato lord del bestiame e aspirante magnate del petrolio, poco compassionevole e privo di onore? Perché il suo mentore, Toshaway (Zahn McClarnon, Westworld), gli ha insegnato il significato della parola “onore”. Una parola che sessant’anni dopo Eli pare aver dimenticato. Ha cresciuto i suoi figli come selvaggi, a detta della cittadina, ma non hanno ereditato il suo stesso stomaco. Pensa Eli. Invece è proprio lui ad aver contribuito a corrompere e traumatizzare i suoi figli, e tutti coloro che gli sono vicino. Eli McCullough ha avuto tre figli, di cui solo due in vita e uno mai nato, quello che stava per avere con il suo primo amore, Fiore della Prateria, Prairie Flower, (Elizabeth Frances). La morte dell’amata segnerà irrimediabilmente il suo carattere. Il primogenito, invece, è morto insieme a sua madre, un’altra donna della quale non sapremo mai abbastanza. Con il tempo, il vecchio ha costruito un impero sfruttando il bestiame, ma “nel presente” l’attività non rende più come una volta. La ricerca del petrolio sembrava dunque l’unica possibilità di salvarsi dal fallimento.

Tuttavia, ora che hanno ottenuto l’oro nero e le terre dei García, bisogna capire come estrarlo. Il pragmatismo di The Son è senz’altro il suo pregio più grande che nel nuovo capitolo determina gli eventi. A quanto pare non basta possedere il petrolio. Senza contare le nascenti imprese petrolifere, come la Standard Oil – rappresentata da Buddy Monahan (Jeremy Bobb) – disposte a tutto pur di accaparrarsi gli oleodotti. La prima stagione, all’apparenza, potrebbe sembrare un’ennesima replica shakespeariana, con tanto di re Lear e figli in lotta per l’eredità. Invece, soprattutto con la seconda stagione, ogni personalità e ogni dinamica si colorerà di tonalità sempre più sfumate e definite. Eli, ad esempio, sa che suo figlio Phineas (David Wilson Barnes) è omosessuale e sa anche che l’altro, Pete (Henry Garrett), è debole. Ma li accetta. Dopo averlo sottratto alla prigionia in Messico, Pete tornerà a casa, ma alle condizioni del padre. Eli tiene sempre tutti al suo amo. La vera e propria erede del nonno, come avevamo intuito, si rivelerà la nipote Jeannie (Sydney Lucas), nonché figlia di Pete e della sempre più disperata Sally (Jess Weixler).

Una storia senza eroi.

The Son

Gli insegnamenti dei Comanche, di cui Eli ha fatto tesoro, dovrebbero scontrarsi con il nuovo mondo, quello dominato dagli interessi economici. Eppure, la sovrapposizione delle linee temporali non mette a confronto un passato candido, rappresentato dalla purezza dei nativi americani, con la crudeltà dell’uomo bianco. In The Son non ci sono eroi, da nessun lato. Non c’è la superiorità di una civiltà rispetto all’altra. Ci sono tante grandi lezioni di vita, puntualmente ignorate. La rivalità tra le civiltà o tra fratelli, come quella tra Phineas e Pete, e addirittura quella tra Eli del 1849 e Eli del 1915 non è mai didascalica né scontata. Tutto è reale e ha il sapore della polvere. Così come il conflitto interiore del protagonista che a volte disprezziamo, altre volte compatiamo, proprio come fanno i suoi cari.

I nuovi 10 episodi scendono dunque in profondità e narrano una nuova storia, ancora più realistica, pragmatica. L’eredità Comanche verrà sempre più allo scoperto, e sempre nei momenti più impensabili. Quando di mezzo c’è il primo figlio del Texas, una trattativa con la Standard Oil può trasformarsi in una carneficina con tanto di scalpo. Continua dunque il dualismo che risolve e contestualizza le azioni del primo capitolo. Eli è il primo figlio del Texsas, un tramite tra gli istinti ancestrali dell’essere umano e l’incapacità di conciliarsi con un mondo che rivendica con prepotenza tutto ciò che tocca. Un mondo che si autodefinisce civile, ma che nasconde nelle sue maglie una crudeltà e una scorrettezza selvagge. La narrazione di The Son non è l’elogio a un tempo perduto. È un viaggio oscuro e violento nella storia dell’essere umano. La violenza, infatti, è insita nell’animo umano, alimenta le differenze sociali, ci rende spietati, avidi e spaventati. Nessuno escluso. La lotta per la sopraffazione dell’altro, la migrazione dei popoli, il razzismo sono ancora una volta i temi fondanti della serie AMC che, nel secondo capitolo, trovano più spazio per fermentare e prendere corpo.

Ogni cerchio si chiude, spezzandone un altro.

Pierce Brosnan

Sarai tu a raccontare la mia storia, i sopravvissuti hanno guadagnato questo diritto.

The Son, 02×09

Le ultime due puntate della seconda stagione chiudono tutti i cerchi aperti. Ma non come credevamo. Eli viene “salvato” dai bianchi che bruciano letteralmente la sua eredità considerata “troppo pelle rossa”. Ha passato quattro anni con i Comanche a cui ha detto addio, ma non certo per salvarli dalla fame. Eli non appartiene a nessuno e nessuno può togliergli ciò che è suo. Assistiamo ai presupposti per la nascita del KKK, con Niles Gilbert (James Parks) e il gruppo che frequenta il suo locale. Jeannie ha ereditato l’impero, ma non esattamente quello di suo nonno. Ulysses, lo sospettavamo tutti, è il nipote di Pete McCullough e Maria Garcìa, fuggiti verso una nuova vita vissuta come qualcuno che non ha nulla da perdere. Qualcuno che finalmente è libero dal proprio padre. Dunque Eli è stato ucciso, ma non da quell’orso feroce, come millanteranno i McCullough, ma dal suo figlio prediletto, che finalmente ha scelto chi essere. Il cerchio si chiude. La morte del Colonnello e la fuga di Pete sarà quindi il collante della nuova famiglia McCullough, che chiude con il passato e inaugura un nuovo corso:

Questo secolo sarà il nostro.

The Son, 02×10

La seconda stagione di The Son si rivela dunque ancor più intrigante e profonda della prima. Abbiamo modo di conoscere a fondo quei personaggi con cui, ammettiamolo, non siamo mai andati d’accordo. Malgrado quel poco di empatia che avevamo per loro, ora svanita del tutto, il nuovo capitolo ci cattura sia per la qualità dei dialoghi – notevoli quelli nel “futuro” – sia per gli snodi narrativi che, visti in prospettiva, sfuggono a ogni cliché. Solo alla fine tutto acquista un senso. Abbiamo capito cosa c’è dietro la leggenda, come Eli è diventato il Colonnello nonché il figlio primogenito del Texas. C’è sempre una risposa a tutto, in fondo. Basta guardare attentamente al passato per capire il presente. The Son è un’altra storia firmata AMC che smonta definitivamente quel mantra, quasi fastidioso, che recita: “faccio tutto questo per la mia famiglia”. Anche questa volta, il protagonista ha fatto tutto per sé stesso.

The Son è finito come doveva finire. Come ci aspettavamo finisse, ma niente è avvenuto nel modo che pensavamo. Con il finale (ci auguriamo: di serie), The Son è riuscito a sorprenderci, per l’ultima volta.

LEGGI ANCHE – The Son: gli albori di un’America capitalista