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The Shield 5×11 – Il punto di non ritorno

Ogni sabato sera, sempre alle 22.30, vi portiamo con noi all’interno di alcuni tra i momenti più significativi della storia recente e passata delle Serie Tv con le nostre recensioni ‘a posteriori’ di alcune puntate. Oggi è il turno della 5×11 di The Shield.

Come si fa a stabilire il punto di non ritorno in una storia piena di scelte moralmente compromettenti? Come possiamo stabilire il vero punto di non ritorno tra migliaia di punti di non ritorno? The Shield, in fondo, non è altro che questo. Una concatenazione di turning point tali che l’ultimo si presenti sempre come più critico, determinante, decisivo di quello che lo precede.

Ad esempio, la decisione di mettere insieme la squadra d’assalto, un momento accaduto nel passato rispetto agli eventi narrati dalla serie e che abbiamo avuto il privilegio di scoprire solo tramite flashback, potrebbe già avere avuto conseguenze irreversibili. E così il primo reato dello strike team. E così la morte di Terry Crowley, avvenuta per mano di Vic Mackey e che dà invece il La agli eventi raccontati nella serie. Ma forse si può andare ancora più oltre, se pensiamo alla rapina al treno degli armeni. In effetti non c’è abisso morale o legale abbastanza profondo da contenere le ambizioni di questo poliziotto sui generis, “un tipo di poliziotto diverso” come si definisce felicemente egli stesso nel pilot di The Shield.

Ma in una serie che è prima di tutto uno spaccato sul concetto di fratellanza, il punto di non ritorno deve essere necessariamente qualcosa di più intimo, deve avere a che fare con i sentimenti, non con le azioni nude e crude. Deve essere qualcosa di così grosso da andare a sconquassare gli equilibri all’interno di quella cerchia di amici. Un trauma da cui veramente non si può tornare più indietro e che, ricevuto un input ben preciso, arriva a disgregare quel contesto fraterno con un impeto tale che nè una redenzione, né un corretto iter giudiziario possano rimetterne insieme i pezzi

L’input è Jon Kavanaugh, l’output è Shane Vendrell

Kavanaugh è senza dubbio un personaggio fondamentale nell’arco narrativo di The Shield. A dire il vero, più che un personaggio in senso stretto, è una figura astratta che agisce al livello del subconscio. Per la sua funzione speculare rispetto allo strike team (stessi metodi, schieramenti diversi) ne rappresenta perfettamente quell’agglomerato di paure, sensazioni negative, pulsioni tanatologiche che minano le certezze della squadra d’assalto, dapprima come individui e poi anche come collettivo. Quello interpretato magistralmente da Forest Whitaker, in buona sostanza, è un tarlo capace di aggredire a livello molecolare ogni debolezza umana, specialmente nei soggetti più predisposti.

Quello che è un vero e proprio assalto alla squadra d’assalto, perpetrato lungo tutta la quinta stagione, miete sostanzialmente due vittime: Lem e Shane. Non il freddo e calcolatore Ronnie, non lo scaltro Vic Mackey, l’uomo che sguazza nei suoi punti deboli fino a farli diventare degli inscalfibili punti di forza. Vic non ha problemi a fare terra bruciata della sua vita personale e ha un carisma tale da piegare chiunque al proprio volere. Al contrario Lem è il più ingenuo e il più facile da circonvenire. Vive questo limbo tra una bontà d’animo latente e l’amore fraterno per i suoi compagni. L’esatto opposto di Shane, il quale in verità è agli antipodi rispetto ai suoi tre compagni, logorato dalla dipendenza da Vic e con potenzialmente tutto da perdere a livello affettivo.

Questa dicotomia tra i due anelli deboli della catena cresce in maniera climatica fino a esplodere totalmente nella 5×11, nonostante tutto in maniera imprevedibile. Sul proscenio abbiamo Lem, potenziale vittima sacrificale di Kavanaugh, a rischio incriminazione pur di non tradire la squadra d’assalto; sullo sfondo il tormento di Shane, sempre più graduale, sempre più morboso. La paura lede la fiducia e questo, a sua volta, mina la lealtà. Viene meno tutto ciò su cui si regge una famiglia, come in quella canzone degli Smashing Pumpkins nel finale della 5×10. Sulle note di Disarm, Lem e Shane si abbracciano proprio mentre Billy Corgan canta: “the killer in me is the killer in you“: un oscuro presagio di ciò che accadrà nel finale di stagione.

Shane non crede che Lem possa resistere, evitare strenuamente, fino alla fine, di vendere tutta la squadra a Kavanaugh. Soprattutto, non crede più nello strike team stesso. Allontanandosi dalla nave base, Shane ha scelto a quale famiglia votarsi, quella con Mara e il loro figlio Jackson: le due non possono più coesistere. Come Corgan offre un sorriso disarmante a Lem, prima di sancire il suo distacco dai fratelli di una vita, ricordando a lui e a tutti noi che ognuno custodisce una parte oscura dentro di sè. Lanciandogli in auto la granata con cui farà saltare la testa di Lem, Shane commette un omicidio goffo e brutale, a tutti gli effetti il gesto di un uomo disperato.

Eccolo il preciso momento in cui, in The Shield, tutto finisce: non c’è via di ritorno per Shane, non c’è via di ritorno per la banda. Se non c’è ritorno, allora tutto è destinato a sgretolarsi.

The Shield è un’opera che trae forza dai ritmi adrenalinici, forsennati. Persino la sigla è brutale, frenetica, essenziale. Tutta la storia si vive d’un fiato, tranne che per due momenti in cui la serie si prende altrettante interminabili pause. Una, ce la ricordiamo tutti, è l’estenuante silenzio con cui Vic Mackey prepara la sua confessione fiume alla FBI, nel penultimo episodio. L’altra è proprio nella 5×11, con il poliziotto che scopre il colpo senza vita dell’amico, ancora in auto lì dove l’aveva lasciato Shane. La morte di Lem è quel momento in cui Vic contempla inorridito il prezzo delle sue azioni e si prende del tempo per elaborare. Il silenzio sembra essere l’unico momento in cui è possibile scorgere un barlume di umanità sul suo volto duro, la sua faccia granitica. Per questo in The Shield c’è sempre e solo rumore.

Difatti, quelli che sembrano istanti infiniti, durano il tempo che ci mette Mackey a soffocare la sua coscienza e a ripartire più brutalmente di prima. Senza soluzione di continuità si scaglia contro Kavanaugh, poiché è vitale per lui tarpare quel silenzio con altro rumore, alimentare il suo agire con rabbia e vendetta che gli impediscano di pensare. L’ultima immagine dell’episodio (e della stagione) è una delle più iconiche: con lo sguardo raggelante che Michael Chiklis restituisce al suo personaggio esce dallo schermo e sembra stia covando rabbia vera. Accanto a lui c’è Ronnie, ormai sempre più allineato e sempre più braccio destro in pectore. In chiaroscuro, un passo indietro, a suggellare il suo distacco c’è Shane. Quel che resta della squadra d’assalto lascia il casolare e imbocca, senza voltarsi più indietro, il viale del tramonto.

A dire il vero c’è un terzo momento di infinito silenzio che lacera Vic Mackey.

È l’ultimissima scena, quella in cui vestito da impiegato con un abito troppo distante da lui e troppo stretto per quella corporatura, si prepara a svolgere lavoro da ufficio per la FBI, nell’ambito dell’accordo di immunità con cui ha venduto anche l’ultimo amico rimastogli. Il contrappasso, a ben pensarci, è devastante: lui che per tutta la vita ha cercato il caos, il fango, le strade, adesso non può fare altro che rimuginare nel dimenticatoio. E in rigoroso silenzio.

Grazie a Vincenzo Galdieri per l’intuizione su Disarm e per le infinite discussioni su questa serie meravigliosa