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In The Americans sono morti tutti

Attenzione: evitate la lettura se non volete imbattervi in spoiler sul finale di The Americans

Quando un capolavoro è davvero tale, un finale non è mai un vero finale. Non un punto granitico, riferimento inscalfibile di una storia che dalla A si ferma alla Z. Ma due punti, preamboli di un racconto che vivrà per sempre nelle nostre menti, in perenne movimento tra un’infinità di virgole, qualche incerto punto e virgola e un illusorio punto a far da spartiacque. Ancor più che per il volere del più abile degli autori, è l’essenza della narrazione stessa ad autodeterminare l’ingresso in scena dello spettatore che immortala un momento per non chiuderlo mai davvero in un cassetto, dando vita alle più svariate delle sliding doors concepibili dalla mente umana.

Un capolavoro si consegna all’infinito, se è davvero tale. Chi ha amato il finale de I Soprano lo sa meglio di chiunque altro, e a distanza di oltre 15 anni fantastica ancora sul destino di Tony senza volere in alcun modo una risposta che non farebbe altro che spezzare l’incantesimo. E che dire del fu Dick Whitman Don Draper, divenuto Don Draper solo nell’ultimo istante di Mad Men? Che dire allora di The Americans e delle insostenibili sfumature di una parola elementare, essenziale e decisiva? Start, semplicemente. O meglio, S.T.A.R.T. Come Strategic Arms Reduction Treaty, l’accordo bilaterale tra Stati Uniti e Russia che nel 1991 chiuse di fatto la Guerra Fredda e con esso il Novecento. Ma è stato davvero così, fino in fondo? Start, in ogni caso. S.T.AR.T., in una sintesi che non necessita di troppe parole. Come l’evocativo titolo dell’ultimo episodio di The Americans.

the americans

Un punto per un nuovo inizio. Che però rappresenta anche la fine più dolorosa. Non quella che culmina con la morte, ma quella che costringe a sopravvivere ancora dopo averlo fatto per una vita intera. All’apice e al declino di una vera esistenza appena assaporata, nell’ombra di un disgelo che ha messo al centro solo per un momento i sogni e i desideri di donne e uomini soli. Prima di farli a pezzi ancora una volta e farne le schegge alla deriva di un Big Bang perenne in cui tutto si crea, tutto si distrugge e tutto si trasforma nelle connessioni impossibili tra poli opposti.

La tragicità della morte rischia d’esser sminuita, se si pensa all’atto conclusivo di una delle migliori serie tv di tutti i tempi. Un atto di coraggio, persino di scherno nei confronti della sterile retorica. Perché solo un capolavoro come The Americans poteva concepire l’idea di sotterrare un’infinità di pistole (e pillole al cianuro) di Cechov nell’atto finale di una storia che chiunque altro avrebbe inondato di sangue. Invece no. Non una morte, non un solo colpo esploso. Non le mani di chicchessia strette intorno al collo dell’ennesimo passante. Non l’esplosione collettiva, ma l’implosione di ognuno. In una guerra dentro l’anima che appiana amicizie e inimicizie, raggela i cuori e cristallizza le corde vocali. Nel silenzio, tra gli sguardi di chi ha scritto interminabili romanzi in un singolo istante. Il silenzio di chi ha perso tutto e potrebbe persino maledire l’ultimo dono beffardo di un destino scritto dai suoi stessi interpreti.

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Nel più tragico dei lieti finali, si fiondano nell’eterno gli occhi di Elizabeth su quel treno diretto verso la libertà, divenuta la peggiore delle gabbie nel momento in cui Paige decide di scrivere la sua storia. Gli occhi di una madre che non sapeva di volerlo essere e che in fondo lo è stata davvero solo negli ultimi anni e solo con la primogenita. Nel crocevia di una vita in cui le certezze granitiche sembravano essere l’unica via di fuga, la banalità della normalità era diventato il pensiero più gratificante. Una volta ammainata la bandiera, restava una donna spezzata e il fumo soffocante di troppe sigarette. Nel chiaroscuro della complessità, restava il desiderio sopito di una famiglia. Finalmente vera, estraniata da una narrazione necessaria che ha appianato ogni possibile divergenza tra la realtà e la finzione. Ma in quel momento vediamo, attraverso i suoi occhi, l’incalzante ciclicità di un destino che non darà mai pace.

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Nei suoi, come in quelli di Philip. Malinconici, mai criptici. Vivi, nel guardare in faccia per l’ultima volta il suo migliore amico e nel far detonare una bomba silenziosa e letale quanto un virus che ti devasta internamente. Nel distruggere ogni barriera tra vittime e carnefici, il mondo si salva sottovoce e la Russia con l’America sembrano divenire i costrutti artificiosi dell’incomunicabilità. Occhi vivi che si riempono di lacrime mai scorse, nel più banale dei fast food. In un quadro quotidiano, si staglia l’utopia. Di una vita che aveva agguantato e a cui si era aggrappato vanamente, prima di esser costretto a lasciare per strada il suo sogno per sotterrare un passaporto, quello del figlio. Nel ballo delle incertezze in cui le sue mani si erano allontanate da quelle dell’amata Elizabeth, non resta altro che vivere insieme a lei la dannazione di una solitudine in cui l’ultimo nucleo sarà il solo sollievo.

Tornati a casa, la casa è ormai altrove. Perso tutto, resta un cumulo di cenere. Nei Jennings quanto negli occhi di Stan, interdetto e inerme. Tra il bianco e il nero di un uomo che ha trovato nei nemici i suoi veri amici, il grigiore di un duello concluso nell’unico modo impossibile. Tra l’America e la Russia, un altro uomo spezzato. Un altro uomo che da una guerra ha avuto tutto e che la guerra stessa gli ha portato via altrettanto. Al Big Bang della speranza ne seguono mille altri, col credito insaldabile della fiducia spazzata via per sempre. Le ombre del nemico, fuori e soprattutto dentro di sé. Un sacrificio costante che porta a tutto per non portare a niente. Al pari del benvoluto Oleg, il martirio dell’uomo trova la pena più dura in una vita ancora da vivere. Tra le braccia di una donna che chissà quale nome ha. E di un secondo figlio acquisito che un nome, in fondo, non l’ha mai avuto.

Come Paige, che ora però un nome ce l’ha. Il suo, nella scelta più difficile. A metà strada tra il disgelo e i ghiacci perenni, Paige sembra scegliere la strada di mediazione tra i mondi. E dell’abbandono, per non abbandonare un fratello ormai smarrito. Tra i paradossi di chi è stato allo stesso tempo la tempesta e il naufrago, una delle principali vittime tra le vittime di The Americans ha trovato la forza di guidare fino in fondo gli eventi con la più radicale delle decisioni. Non in nome di un ideale e di una vita non plasmata da sé, ma di un impulso che la condurrà chissà dove. Con ogni probabilità, non verso la felicità.

Chissà dove, atomi sperduti. In una strada buia come quella imboccata da Elizabeth e Philip nel ritorno in quella che un tempo era stata casa loro. Uno start dopo la fine. Lo S.T.A.R.T. che ha determinato la fine. Un nuovo capitolo in cui la sopravvivenza si aggrapperà all’amore di chi in qualche modo è rimasto, con la consapevolezza che tutto al di fuori di esso ha ora molto meno senso. Finalmente individui, nel ciclo perenne di una conclusione in cui tutti sono morti ammazzati e rinasceranno ora nei pensieri più liberi concepibili dalle nostre menti.

Nei quali immaginarli oggi, a distanza di 30 anni, liberi da una visione esplicita che avrebbe minato la magia di questo finale, immersi in un’esistenza appesantita dalle mille vite precedenti. Fratelli in armi, al di là degli schieramenti. Uniti dal sogno impossibile di scrivere una storia in cui essere finalmente se stessi e lasciarsi andare a un urlo strozzato in gola fin dal momento in cui sono nati. Non più le pedine di un conflitto in cui l’essere russi o americani quasi si sovrappone. Reduci di una guerra a cui mettere davvero un punto. Tutti loro, un po’ più americani nell’essere russi. Un po’ più russi, nell’essere americani. Donne e uomini cittadini del mondo, figli di un Novecento infame e benedetto.

Alla vana ricerca di un barlume d’ordinarietà, una birra con un amico, un amore adolescenziale, un ballo spensierato o chissà cosa in un mondo non più loro: non loro, vittime predilette di un piano machiavellico purtroppo inconcepibile. “Fa strano”, ed è vero. Ma no, non farà mai strano abbastanza. In fondo, anche dopo 30 anni.

Antonio Casu

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