Vai al contenuto
Serie TV - Hall of Series » Ted Lasso » Come Ted Lasso ci ha aiutati a normalizzare gli attacchi di panico

Come Ted Lasso ci ha aiutati a normalizzare gli attacchi di panico

Formicolio, senso di inquietudine che pervade tutto il corpo, senso di appannamento, udito ovattato, palpitazioni, senso impellente di fuga. E poi aspetti che finisca, sperando che nessuno ti noti per evitare figuracce, ma al tempo stesso auspicandoti che nei paraggi ci sia qualcuno che ti capisca e possa rassicurarti. In questa contraddizione sta tutta la potenza degli attacchi di panico, che sono forse il più grande scherzo che ci gioca la nostra mente, ponendoci di fronte a pensieri al contempo così tangibili e così immateriali. È difficile parlarne, sentirsi accolti, capiti, a meno che tu non stia facendo un percorso con un terapeuta. Ed è altrettanto complesso descrivere queste sensazioni in una serie tv, senza risultare stucchevoli o banali. A meno che la serie non sia Ted Lasso.

È un aspetto, questo dell’allenatore dell’AFC Richmond, particolarmente straniante sia per quel che è il mood della serie, sia per come ci viene presentato il personaggio. Ted Lasso sembra quasi irreale per l’innata bontà e genuinità con le quali si approccia agli altri. Una specie di stregone atemporale, un monolite che arriva da un altro pianeta e viene a “curare” una squadra di calcio, la sua presidente, gli abitanti della cittadina inglese alle porte di Londra. D’altra parte già l’innesco narrativo volutamente provocatorio – che vede un allenatore di football dilettantistico andare ad allenare in Premier League – ci richiede una buona dose di sospensione dell’incredulità. Ma per quanto è rotto, Ted Lasso è anche il personaggio più umano, nel senso letterale del termine. Ad esempio è emblematica la sua incapacità di condividere le emozioni.

Quando è alle prese con un attacco di panico, cerca semplicemente di allontanarsi dalle persone un po’ per non gravare sugli altri, un po’ perché spesso l’attacco ha per natura implicazioni agorafobiche. Chi soffre di questa condizione si troverà di fronte a uno scenario estremamente familiare. Il DSM-5, o Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, descrive gli attacchi di panico come “un’improvvisa ondata di intensa paura o intenso disagio che raggiunge un picco in pochi minuti” e parla, come dicevamo anche in apertura, di sudorazione o palpitazioni cardiache quali caratteristiche distintive. Ted ci mostra diversi di questi sintomi, incluso un altro accuratamente descritto dal DSM-5, vale a dire la de-realizzazione, il sentirsi disconnesso dal proprio essere.

Sono stati due in particolare i macro episodi di panico a cui Ted Lasso è stato esposto

Il primo attacco di panico di Ted avviene nel settimo episodio della prima stagione “Make Rebecca Great Again” quando è alle prese con gli i documenti del divorzio, non vuole accettarlo e fa fatica a firmarli, sperimentando un’ansia acuta in un bar, mentre è con la squadra a fare serata. In tal caso è Rebecca che si rende conto della situazione e accorre in suo aiuto: un momento che porta a un altro livello il rapporto instaurato dai due personaggi.

Nel sesto episodio della seconda stagione, “The Signal”, invece, il personaggio interpretato da Jason Sudeikis è sopraffatto dal fatto che la sua famiglia sia lontana da lui e dalla squadra, ormai col vento in poppa e diretta verso la promozione. Allora lascia il campo a metà partita, lamentando un malessere, per poi recarsi nell’ufficio della dottoressa Sharon, un personaggio cruciale che però mostra il picco massimo e al tempo stesso i limiti della narrazione che la serie fa della salute mentale. Nella terza stagione, infatti, le apparizioni della dottoressa sono fugaci e insignificanti, malgrado Ted abbia ancora, evidentemente, degli irrisolti. Quando la cerca non sempre la trova disponibile e, a quel punto, era forse meglio estromettere del tutto il personaggio.

Ma al di là di questo, la mission della serie non può essere ignorata, così come il messaggio del quale si fa portatrice. La società del nuovo millennio è stata indottrinata alla spasmodica ricerca della “felicità eterna”, che invece è sempre più effimera, se non addirittura utopica. Accettare la tristezza è ancora un tabù. Al contrario la serie ci incoraggia a immergerci nelle nostre angosce quale atto fondamentale per prenderci il nostro tempo, dialogare con le nostre paure, frenare quell’ancestrale bisogno di risposte immediate. Il vuoto interiore è una caratteristica propria di ognuno di noi, che può essere più o meno tangibile. Ma il vuoto va prima compreso e poi, in secondo luogo, abbracciato per poterci convivere.

Ted Lasso, pertanto, incarna un concetto e il suo opposto. Cerca di essere questa figura positiva alla quale la sua squadra possa ispirarsi, ma al tempo stesso dimostra la fallacia di questo approccio sociale. Si nasconde, fugge dalle proprie emozioni, fugge dalla stessa dottoressa Sharon, perché in fondo è più facile incoraggiare gli altri di stare meglio che intraprendere quello stesso percorso in prima persona. Lo sappiamo, l’abbiamo provato sulla nostra pelle e la serie da questo punto di vista non ci indora la pillola. Però proprio questo atto di realismo, sbattuto in faccia senza filtri, ci supporta e ci fa sentire compresi. Normalizzati, appunto.

A un livello più collettivo la serie offre uno spaccato fondamentale su come viene affrontata la questione nello sport.

Ted Piange
Ted Lasso (640×360)

La preoccupazione per la salute mentale nello sport è una questione seria che Ted Lasso decide di affrontare anche in questo caso in modo rispettoso e realistico. Secondo uno studio del 2022 sulla salute mentale degli studenti-atleti condotto dalla National Collegiate Athletic Association, il 59% degli atleti che si identificano come uomini e il 50% degli atleti che si identificano come donne concordano sul fatto che i loro allenatori prendono sul serio la loro salute mentale. Tuttavia, malgrado questi numeri siano incoraggianti, le riserve sull’argomento sono ancora forti, soprattutto quando si è in mondovisione. Particolarmente altisonante è stato il caso della tennista Naomi Osaka.

Nel corso delle tre stagioni vediamo Ted alle prese con gli attacchi di panico, ma lo vediamo anche fronteggiare lo stigma sociale che ne deriva. L’episodio che citavamo poc’anzi, quello del “secondo attacco” lo costringe ad affrontare i tabloid che lo attaccano senza pietà per essersi allontanato nel bel mezzo di una partita. E non va meglio quando si ritrova a tu per tu con le persone, in strada, e viene ridicolizzato per la sua condizione. Anche se sono stati fatti notevoli progressi nell’accettazione sociale di questo fenomeno, la rappresentazione che ne fa la serie è assolutamente realistica.

Ed è banale giungere alla conclusione che poi sia egli stesso a risolvere tutto con un discorso dei suoi. Quel discorso in conferenza stampa, uno dei momenti più commoventi dello show, funziona perché è rivolto a tutti noi. Ted esce fuori dallo schermo e diventa una persona in carne ed ossa che lancia un appello, alla stregua di quanto fatto da altre star in tema salute mentale. E proprio per la cura e l’attenzione che la serie affida a questa tematica, il suo va considerato in tutto e per tutto un parere autorevole.

Alla fine, o meglio, nel corso della seconda stagione, Ted ci rivela come nasca il suo vuoto interiore, ma cosa l’abbia causato in fin dei conti è importante solo per lui, affinché possa elaborarlo. Il messaggio generale è quello che restituisce a tutti noi. Che non è LA cura, che può essere affrontata solamente con l’aiuto di persone qualificate, ma è un messaggio semplice, estremamente normalizzante, proprio come tutta la serie: “Non sei solo”.