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Ted Lasso 2×08 – Padri e demoni nell’episodio che ricongiunse tutto

«Colui che genera un figlio non è ancora un padre, un padre è colui che genera un figlio e se ne rende degno».

(Fëdor Dostoevskij)

Jamie Tartt si guarda attorno, nell’intimità dell’ennesimo ambiente comune che costringe a stare uniti, nella sala d’allenamento dell’AFC Richmond, dove oggi il suo ego non è più così grande da occupare l’intera stanza. No, oggi Jamie Tartt ha la possibilità di guardarsi attorno, di capire cosa succede a chi ha spazio per stargli accanto – i suoi compagni di squadra – e riflettervi la propria situazione con l’imbarazzo del bambino che ha tra le mani il giocattolo più vecchio della classe, sporco e rattoppato con gli avanzi di chi non può permettersi di meglio. Eppure Jamie ha tutto, perfino più degli altri. Se non fosse che il suo giocattolo rotto è qualcosa che va oltre il nome scritto a fuoco nella storia del calcio, tra le scintillanti insegne di quell’Ethiad Stadium che circonda le imprese di un passato glorioso al Manchester City, o l’inchiostro colorato del suo nome sulla copertina del Vanity Fair.

Il giocattolo di cui si vergogna quel bambino cresciuto troppo presto è l’unica cosa che manca a lui ma anche l’unica che rende completi i suoi compagni, quelli che gli danno quel motivo per guardarsi attorno, nel tentativo di capire perché il messaggio ricevuto al cellulare da suo padre è così diverso dalla telefonata che fa sorridere Sam Obisanya. Il giocattolo rotto di Jamie Tartt non si può aggiustare né comprare nuovo.
La vergogna che egli prova è l’immotivato dovere da rispettare che va oltre l’impegno, quel rischio di disonore che si stampa nell’obbligo di “arrivare per forza”.
Mentre il cellulare di Sam sembra suonare la più bella suoneria che un bambino col pallone tra i piedi possa ascoltare (l’orgoglio di suo padre), Jamie Tartt guarda il suo, di cellulare, e sullo schermo non c’è esternazione d’orgoglio per quella semifinale ottenuta contro i campioni di cui è stato anche compagno.
Non c’è gratificazione.
C’è solo, ancora una volta, pretesa (“Hai preso i biglietti per me e i miei amici?”).

Ted Lasso (640×360)

Il cellulare di Sam funziona forse meglio di quello di Jamie? Questo sembra pensare il centravanti che, con l’ingenua tristezza di chi non capisce cosa ci sia che non vada in sé o in ciò che è riuscito a ottenere, finisce per guardare con sospetto tutto ciò che lo circonda, e vale per gli oggetti come per le persone. Tutte le persone, tranne suo padre: l’unico giocattolo che non si è mai accorto essere rotto.

C’è del malinconico simbolismo nelle circostanze che creano i presupposti per ricongiungere tutto, nella 2×08 di Ted Lasso.

L’eterno ritorno del passato, tra famiglia e carriera, col Manchester City e con figure paterne che irrompono nella sfera emotiva di chi è cresciuto per non aver diritto ai sentimenti, di chi sembra essere pagato non solo per giocare a calcio ma anche per subire l’ira dell’indebita autorizzazione al giudizio.
In questa non autorizzata sessione di allenamento imposta dalla vita, gioca il suo torello personale anche Ted, che nel momento più simbolico della stagione sente rompersi qualcosa, quando nel commovente abbraccio protettivo al centro del branco tra Roy Kent e Jamie Tartt, per la prima volta si sente realmente solo.
O meglio, per la prima volta è in grado di rendersi conto di esserlo, nell’incapacità di chiedere aiuto.

Così, Ted Lasso decide di calare la maschera e mostrare il suo giocattolo rotto, confessando alla dottoressa Sharon il suicidio di suo padre, chiudendo un cerchio che ha al suo centro la letteratura dell’ingombro paterno nello sport in quelle due misure agli antipodi: l’assenza e l’eccessiva presenza.

L’assenza paterna per Ted Lasso è un dramma che acuisce nel contesto sportivo, che gli dà risonanza sociale oltre la “mera” perdita. Questo trova forma in una dinamica psicologica comprovata, secondo la quale le percezioni degli sportivi su quanto siano coinvolti i genitori condizionano la condotta sportiva e soprattutto il divertimento. Da qui, la tendenza a modificare inconsciamente le proprie strategie di coping (ossia, come da manuale, quella serie di comportamenti messi in atto dagli individui per cercare di tenere sotto controllo, affrontare e/o minimizzare conflitti e situazioni stressanti). Così diventa tanto “teatralmente” verosimile quella paura di Ted Lasso nel vedere incolpato suo padre (o meglio, la sua assenza) per i suoi attacchi di panico, e assume una dimensione anche quell’assenza di pressioni, quelle che invece attanagliano Jamie Tartt: enfatizzare gli errori come parte dell’apprendimento, la mancanza di ossessione alla vittoria, l’associazione dello sport al divertimento, sono tutti elementi che caratterizzano Ted Lasso e che sono ascrivibili a una mancanza di riferimento ossessivo.

Eppure, i non-riferimenti rendono vaga la direzione di Ted, da qui il sentirsi spaesato, perso, in balia dei suoi attacchi, almeno fino al momento della sua apertura con la dottoressa Sharon.

Ted Lasso
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Di padre in figlio, dall’assordante suono del silenzio all’anestetico urlo dell’oppressione, lo sport diventa quell’area di prova, un’arena circoscritta in cui si crede che per essere protetti bastino le regole del gioco, e l’intero circuito della vita abbia il dovere di diventare un banco di prova con aspettative che superano il concetto di realtà.
Così la 2×08 di Ted Lasso ci racconta quanto può essere traumatizzante la figura paterna nello sport, e interviene in maniera delicata e simbolica in un problema spesso sottovalutato come la salute mentale nel contesto agonistico.

Che sia quella di un ricordo come per Ted Lasso, o quella di una costante per Jamie Tartt, l’oppressione è quella materia in grado di corromperti fino al momento esatto in cui comprendi che volersi bene, molto spesso, può far paura. Specialmente se volersi bene vuol dire buttare il tuo vecchio giocattolo rotto.