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Superstore sembrava simile a mille altre comedy. Invece è stata una comedy unica

Superstore: una serie tv su cui, nel corso del tempo, è stato detto davvero di tutto e che troppo spesso è stata liquidata come un prodotto fin troppo debitore di altre grandi comedy che hanno fatto la storia della televisione degli ultimi anni. The Office, Parks & Recreation, Brooklyn Nine-Nine sono infatti solo alcuni tra i titoli da cui, secondo molti, Superstore avrebbe attinto a piene mani, tra copiature e tributi vari. Ma è proprio così? La serie con al timone America Ferrera è davvero così simile a queste comedy come ci è stato sempre detto? Oppure questa serie tv è più originale e unica di quanto non potesse sembrare all’apparenza?

Mettiamo subito in chiaro un paio di aspetti: che Superstore, show NBC composto da sei stagioni andate in onda tra il 2015 e il 2021, sia figlia del suo tempo e delle serie che l’hanno preceduta all’interno del sottogenere delle workplace comedy (le serie tv commedia ambientate sul posto di lavoro), non è da mettere in questione. L’ideatore stesso della serie, Justin Spitzer, deve infatti gran parte della propria fortuna e del proprio successo grazie al suo lavoro tra gli sceneggiatori di The Office. Non stupisce, dunque, che le prime recensioni legate al prodotto ai tempi rimarcassero in più di un’occasione un presunto legame tra la fresca comicità e la capacità di mostrare la poetica bellezza della quotidianità di Superstore e le atmosfere della serie di Steve Carell e, per estensione, delle altre comedy che si sono poste, volenti o nolenti, sulla scia di quest’ultima.

Superstore
Tutto il cast di personaggi (640×360)

Che si cambi o meno il contesto generale della sua ambientazione, in tutte queste serie tv, a essere al centro della narrazione troviamo infatti un numeroso e peculiare gruppo di personaggi (spesso strampalati) impegnati a lavorare in un posto all’apparenza banale che però riserva numerose sorprese, non importa che si tratti di un supermercato, di un ufficio comunale o di una stazione di polizia.

Eppure, se ci pensiamo bene, i punti di contatto tra Superstore e le altre serie tv sopracitate si interrompono laddove si segnalano i confini delle macro-caratteristiche tipiche di una workplace comedy.

Gli archetipi, d’altra parte si ripetono sin dall’alba dei tempi: dei protagonisti in cui rispecchiarsi che condividono lo schermo con un grande cast corale multietnico che dia un grande senso di inclusività, un’ambientazione sui generis che setta al suo interno dinamiche e gerarchie ben definite e una marcata componente comica. Se però, almeno inizialmente, lo spettatore è portato naturalmente a riconoscere all’interno di una serie comedy il già visto e il simile piuttosto che la novità, bastano tuttavia davvero poche puntate per farci capire come, nonostante le apparenze, Superstore abbia consolidato una propria personale impronta creando un prodotto valido e originale.

Superata la soglia della diffidenza, atteggiamento tipico da parte del pubblico dinnanzi a un nuovo prodotto comedy, e approfondito il soggetto di partenza, affermare che Superstore sia una copia di tante altre serie tv commedia equivale a non averne davvero compreso la portata e averne giudicato gli stilemi in maniera troppo frettolosa e avventata, così come chi ai tempi sosteneva che Parks & Recreation fosse solo una copia di The Office,

Amy (America Ferrera) e Jonah (Ben Feldman) (640×360)

Perché, pur rifacendosi effettivamente ad alcuni dei topoi narrativi propri di qualsiasi serie tv commedia dal 2000 a questa parte, dall’attesissima love-story tra i due giovani personaggi, alla graduale ascesa ai vertici da parte del protagonista fino alla presenza di personaggi più macchiettistici sullo sfondo, Superstore dimostra ben presto di avere carattere. Perché, al di là di tanta leggerezza e divertimento, lo show finisce per diventare simbolo di persone vere, con problemi reali all’interno di uno stato che li fa sentire esclusi e abbandonati. E ci vuole coraggio, all’interno di una comedy in onda in prima serata, nel parlare così apertamente di gravidanze in adolescenza, del problema della vendita delle armi, degli squilibri nel sistema sanitario, di immigrazione, delle prevaricazioni delle grandi società che preferiscono affamare i loro dispendenti piuttosto che offrire orari e diritti equi.

Perché, pur tra tanta ironia, Superstore riesce a interpretare benissimo il sentire e il disagio delle persone comuni, quelle che, per un motivo o per un altro, vengono costantemente vessate da vite in cui non si riconoscono e che continuano a lottare quotidianamente per trovare un po’ di sollievo e giustizia. Tra lotte sindacali, proteste e manifestazioni, riusciamo a conoscere una faccia dell’America che raramente ha modo di essere mostrata in una serie tv. I commessi del Cloud9 si ritrovano infatti sempre sul filo del rasoio a condurre una vita precaria e senza garanzie, dove la maggior parte delle volte è il pesce più grosso ad averla vinta.

Dina e Glenn (640×360)

Tematiche che vengono analizzate con cura e attenzione senza mai scadere nel ridicolo ma con un tocco di sagace ironia e di brillante humor.

Eppure, nella loro infinitesimale piccolezza, Amy (America Ferrera), Jonah (Ben Feldman), Mateo e gli altri protagonisti di Superstore ci hanno insegnato davvero cosa significa essere degli eroi postmoderni, per i quali, anche solo riuscire a cogliere la bellezza di un piccolo momento diventa un’impresa titanica. Ma per fare ciò, la serie non ha avuto bisogno di imitare i modelli preconfezionati da altre comedy, sviluppando per i propri personaggi un carattere e un’individualità ben distinta dai personaggi di altre serie rispetto ai quali, almeno in apparenza, hanno inizialmente rischiato di assomigliare troppo, come Dina e Dwight.

Ma non solo dal punto di vista della profondità di alcune tra le tematiche toccate dalla serie: Superstore è un prodotto che riesce a creare una comicità dalle tante sfumature diverse. Dalle molte running gag che affollano la serie come la ricerca del killer che taglia i piedi alle persone fino alle sempre esilaranti sequenze quasi documentaristiche in cui assistiamo ai più folli, ma sempre, ahinoi, credibili e realistici comportamenti della clientela. Ecco, quindi, che l’umorismo di Superstore, una volta compreso, acquista una firma ben marcata e definita rispetto alle altre serie tv. Puntando su grande semplicità e sull’esagerazione di situazioni comuni in cui poterci ritrovare, lo show NBC riesce a trovare la propria quadra senza rischiare di diventare una copia già vista e rivista di altro.

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Il Cloud9 (640×360)

Superando tanti pregiudizi e opinioni fin troppo semplicistiche purtroppo molto in voga durante la sua prima messa in onda, la serie sta oggi rivivendo sulle piattaforme streaming una seconda vita in cui essere riscoperta anche da chi, inizialmente, aveva scelto di non fidarsi della sua originalità. Considerata oggi come una delle serie tv comedy più influenti dell’ultimo periodo ma comunque ingiustamente ancora piuttosto sottovalutata, siamo sicuri che la serie finirà con il riscuotere il successo che le spetta, togliendosi una volta per tutte la nomea di essere una serie poco originale.

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