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The Handmaid’s Tale al grido di “Up yours!”

Alcuni credono che le ragazze debbano essere guardate e non ascoltate/Ma io dico servitù, vaffanculo!

Quasi dieci anni prima che la Atwood scrivesse The Handmaid’s Tale, nel 1977, il punk esplodeva in tutto il mondo. Giovani e meno giovani si rivedevano in quel messaggio rivoluzionario, in quell’inno alla diversità e all’originalità. Esattamente nello stesso anno, un noto marchio di alta moda metteva in commercio dei bondage trousers, i tipici pantaloni punk, allo slogan di: “Per soldati, prostitute, lesbiche e punk”. Ancora una volta, dopo il naufragio delle aspirazioni sessantottine, il consumismo si appropriava dei vessilli della resistenza giovanile, trasformandoli in simboli alla moda.

È sempre in quel contraddittorio 1977 che una giovane donna, Marianne Joan Elliott-Said, ebbe una visione. Nella sua mente si accavallavano le immagini delle suffragette incatenate a Buckingham Palace, il dilagare dei bondage trousers e le sfilate della “Rivoluzione sessuale”. Marianne stette in silenzio. Meditò tutte queste cose dentro di sé. Poi gridò: “Alcuni credono che le ragazze debbano essere guardate e non ascoltate/Ma io dico servitù, vaffanculo!”. Nasceva in quel momento il grido punk “Oh Bondage, up yours!”.

Servitù, vaffanculo! È ciò che grida implicitamente Alma in The Handmaid’s Tale prima di consacrarsi alla Rivoluzione.

Prima di lanciarsi in quel disperato, estremo atto di Resistenza. Ma non è la sola. Non c’è solo lei a muovere i passi per la riconquista di una faticosa libertà personale. Tutte le donne in The Handmaid’s Tale hanno, prima o poi, percorso questo cammino. Tutte sono state, a modo loro, rivoluzionarie e hanno finito per diventare schiave.The Handmaid's Tale

Poly Styrene, questo il nome d’arte di Marianne Joan Elliott-Said, nella sua “Oh Bondage, up yours!” parlava di catene. Le catene della schiavitù, certo. Quelle che soffocano le ancelle e le costringono a una vita al servizio di altri (“Voglio essere la schiava di tutti voi”, grida ironicamente Poly Styrene). Ma non solo. La leader degli X-Ray Spex si riferiva anche a chi credeva di essere libero mettendosi in catene. A quelle suffragette che esasperavano le loro rivendicazioni trasformandosi in estremiste.

In loro rivediamo gli oppositori della signora Waterford (meglio, di Serena) che infiammano il clima ancora democratico americano militarizzando lo scontro. Nelle loro grida, nella rabbia cieca che li pervade c’è un senso di sopraffazione. Di prevaricazione. Serena, ferita, diventa nient’altro che una martire vivente, l’emblema di un’incredibile controrivoluzione.

In quel tentativo di tapparle la bocca c’è la contraddizione del mondo presente.

Un mondo apparentemente disposto a tollerare la diversità di pensiero ma mai realmente pronto all’ascolto. Nel sesto episodio di The Handmaid’s Tale le posizioni e le certezze si ribaltano in un gioco di relativismo. Così, Fred prorompe in un “Lei ha il diritto di parlare: siamo in America!”.

Solo noi spettatori, a posteriori, possiamo cogliere l’ipocrisia di quel grido. O meglio, la sua iperbolica assurdità. Paradossale è anche la posizione di forza di Serena, vera leader del movimento, rispetto a Fred, succube e incerto compagno. Paradossale rispetto all’esito di quella rivoluzione che la vedrà privata della parola e della possibilità di scrivere. Privata, insomma, della dignità di donna.The Handmaid's Tale

Ecco le catene, quelle catene di cui volontariamente Serena si cingerà in nome di un’idea. In nome di un pensiero contro-rivoluzionario. È lei la vera punk dell’ante-Gilead. La donna sorretta da un’ideologia personale che si scontra col mondo, con tutti. E si impone. E riesce ad avere la meglio. Poi… “Bendami, legami, incatenami al muro/ voglio essere la schiava di tutti voi”.

Oh bondage”. Oh, schiavitù, oh, masochismo (bondage)!

Accade qualcosa. Questo qualcosa è esattamente ciò di cui canta Poly Styrene. È l’onda che si infrange, la rivoluzione che si spegne trasformata in strumento a uso e consumo del potere. Le idee di Serena diventano una facciata, uno specchio per le allodole. Dietro l’idea distorta in fanatismo religioso si nasconde nient’altro che il potere. E questo potere ha un volto maschile. Il volto di un uomo che regredisce apparentemente nel puritanesimo più esasperato (vedi: l’unione sessuale tra Nick e la moglie-bambina) per nascondere le proprie perversioni nel segreto della notte (il bordello Jezebel).

Come la rivoluzione sessantottina e quella punk, anche quella di Serena fallisce. Viene risucchiata e rimasticata da qualcosa di altro. Dall’eterno desiderio di prevaricazione: la lotta per il potere. Serena è lentamente emarginata e finisce, in nome di quella stessa idea, a rendersi volontariamente schiava. “Bendami, legami, incatenami al muro/ voglio essere la schiava di tutti voi”.

L’altra grande rivoluzionaria/schiava è, naturalmente, June/Difred.

Anche in lei catene e libertà si alternano senza sosta. La sua è una lotta tanto interiore quanto esteriore. Nello scorso episodio avevamo assistito al rinnovarsi delle sue promesse interiori. Al suo slancio verso la lotta. June a lungo aveva provato a resistere, a rivendicare la sua dignità di donna ed essere umano.The Handmaid's Tale

Infine, era crollata. Era crollata di fronte alle conseguenze della sua rivoluzione. Alla morte di un innocente. Si era volontariamente ricondotta in catene e deprivata di ogni stimolo alla libertà. Aveva rinunciato alla propria coscienza di donna auto-inducendosi in uno stato di catatonia. La “conversione” sembrava irreversibile. Difred aveva preso il sopravvento, guscio vuoto di un automa pronto a rispondere, a comando, “Sì, signora Waterford”. “Bendami, legami, incatenami al muro/ voglio essere la schiava di tutti voi”.

Poi, però, qualcosa era cambiato. Qualcun altro le aveva ricordato la forza della Resistenza. Qualcun altro lottava, ancora, per lei quando lei stessa non aveva più la verve per farlo. Quel qualcuno era il suo bambino. Quell’esserino tenacemente aggrappato alla vita. Per lui, in nome suo, June riprende possesso di sé. Trova, nell’amore, la forza per calarsi nuovamente nella lotta.

Una lotta segreta, sotterranea, psicologica ma ben esemplificata anche da alcune parole.

Qualche problema con la prima gravidanza?”, domanda il dottore a inizio episodio. “Con Anna?”, afferma in risposta June ridando nome al suo passato. Restituendo dignità al ricordo di una figlia che il regime aveva (o almeno avrebbe voluto) rimosso. “Durante la tua prima gravidanza”, tiene a rimarcare genericamente il dottore.

Oh, guardi, signora Waterford! Il suo bambino si sta muovendo”, afferma ancora l’uomo delegittimando implicitamente Difred di qualunque ruolo genitoriale. Il separé pone le distanze, anche fisicamente, tra l’ancella, semplice portatrice della vita, e la vera “madre”. Ma June sorride. Tanto la figlia quanto il figlio sono vivi in lei. Sono suoi. “Servitù, vaffanculo!”.

Rivoluzione e controrivoluzione. Catene e liberazione.

The Handmaid’s Tale racchiude la sua forza anche e soprattutto nei dettagli. Nei sottili, appena percettibili, spasimi delle donne, vere protagoniste del racconto. Così, anche l’indottrinata Eden, neosposa di Nick, patisce i dubbi di una coscienza che non è del tutto sedata. Quei dubbi sono tutti concentrati in due sussulti, in due atti di imbarazzo e resistenza. Entrambi affidati all’incontrollato tremito della mano.The Handmaid's Tale

Il primo mentre menziona, implicitamente e molto pudicamente, a Difred la sua iniziazione sessuale. Il secondo nell’atto stesso. L’occhio della telecamera in entrambi i casi si sofferma sulla mano, su quel rigurgito di interiorità che si nasconde dietro il formalismo della dottrina. Eden stringe Nick ma sembra quasi respingerlo, sembra quasi opporsi, tenacemente, a quell’unione. In quel prolungato gesto c’è il naturale riconoscimento dell’innaturalezza dell’atto.

Donne e schiave, rivoluzionarie e controrivoluzionarie in un eterno sovrapporsi e confondersi. “Servitù, vaffanculo!”.

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