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Suburra, la recensione della terza e ultima stagione

ATTENZIONE: questo articolo contiene SPOILER su Suburra 3.

Siamo di nuovo qui, per celebrare la conclusione di un percorso che ha tenuto incollati allo schermo i fan di tutta Italia e di tutto il mondo, e non senza motivo. Una stagione più breve, solo sei episodi per scoprire come si è evoluto il rapporto tra Aureliano e Spadino, per tirare le fila di tutto ciò che era rimasto in sospeso. Poche puntate per ricollegarsi alla trama dell’omonimo film di Stefano Sollima da cui la serie avrebbe dovuto prendere le mosse.

Ma Suburra – La serie si discosta dal suo punto di partenza e dalla realtà dei fatti. Mira altrove, dimostrando di essere una cosa a sé, e a noi va bene così. Mira a raccontarci la storia infinita in cui la città di Roma è da troppi anni intrappolata, a catapultarci per le caotiche strade di un luogo così pieno di persone e al tempo stesso così vuoto. Con Suburra 3 il cerchio si chiude e riprende da dove aveva cominciato.

suburra 3

Lele ora è solo un ricordo che, non a caso, torna alla mente dei suoi amici nel primo e nell’ultimo episodio. Un fantasma come tutti gli altri che infestano i sogni e i pensieri dei nostri personaggi principali. Ostia ormai è solo una briciola in confronto al resto, un minuscolo e insignificante puntino rispetto a tutto quello che Spadino e Aureliano vogliono ottenere. Il potere di scegliere il mondo in cui vivere, di ricominciare da capo e di costruire un nuovo impero, il loro.

È così che insieme uccidono Samurai, il guardiano silenzioso di Roma, distaccandosi completamente dalla realtà e dal film del 2015. Una mossa inaspettata ma essenziale che gli ha permesso di arrivare fino in cima. Il grande boss della capitale viene lasciato lì, al sorgere del sole, di fronte al monumento simbolo della città eterna che aveva sempre cercato di controllare, continuando a vegliare di nascosto sulle sue ricchezze. Il suo ruolo stavolta è stato breve e a Roma serve un nuovo capo.

Ma è grazie alle sue parole se abbiamo compreso e apprezzato l’andamento più lento e riflessivo di Suburra 3.

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Roma è difficile, non si può avere fretta con lei“. I sei episodi che compongono la stagione conclusiva, infatti, di fretta non ne hanno avuta. In confronto alle puntate che l’hanno preceduto, il capitolo finale del prodotto originale Netflix si è mosso più lentamente, relegando l’azione a poche e significative scene. Questa volta sono bastate le parole per mostrare a tutti l’anima oscura di questa città, in cui nulla è cambiato rispetto ai secoli passati. Ed è anche la colonna sonora a trasmetterci questa sensazione, grazie alle note malinconiche e rassegnate di S.u.b.u.r.r.a. e Cuore nero del rapper Piotta, che insieme a Il Muro del Canto aveva già dato voce alle sue preoccupazioni nelle stagioni precedenti.

La storia si ripete e si ripeterà, non importa chi sia a stringere le mani intorno al collo di questa città piena di ombre.

Roma è l’inferno più bello che c’è” e a pagarne le conseguenze è anche Amedeo Cinaglia (un incredibile Filippo Nigro), la cui umanità e le cui speranze sono state risucchiate dall’asfalto di Roma, dalla corruzione che regna sovrana ovunque e non risparmia nessuno. La Chiesa a cui sua moglie Alice si era affidata per trovare la pace non è bastata a salvarla. Amedeo è riuscito a strapparle la vita, così come Roma, la mafia capitale e la Chiesa hanno lacerato la sua. L’unico che si è saputo tirare fuori da tutto è stato Adriano, dalla cui figura forse ci si aspettava qualcosa in più.

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Grazie a un’interpretazione realistica e toccante, a un Alessandro Borghi e a un Giacomo Ferrara perfettamente a proprio agio nei panni di Aureliano e Spadino, Suburra 3 catapulta lo spettatore e i personaggi in un incubo da cui non pare possibile svegliarsi, un sogno paralizzante di tristezza e morte che sembra destinare ciascuno ad essere schiavo del luogo in cui è nato. È lo specchio del dramma di una Roma che risucchia e affoga, e che le luci e la fotografia contribuiscono a rendere reale.

Gli sguardi dall’alto sulla nostra capitale non fanno altro che rendere ancora più evidente il contrasto tra la sua bellezza esteriore e il marciume che la consuma dall’interno e si infiltra tra i mille colori dell’alba, attraverso la sua storia e i suoi monumenti. Il mostro che infesta la capitale non è morto, non dorme e non conosce fine.

Suburra è anche la serie di un amore impossibile e di un affetto che va oltre tutto, dell’amore come unica arma contro le ombre che infestano ogni angolo. Nadia e Angelica non sono solo una forte e necessaria componente femminile che cerca di farsi strada e occupare il posto che gli spetta nel mondo, rappresentano anche l’umanità perduta di Aureliano e Spadino, la sola ragione che li spinge a rimanere attaccati alla vita. Ma la sola debolezza di Aureliano Adami è la sua capacità di amare, e non ha più intenzione di mettere in pericolo chi ha intorno.

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La serie non poteva concludersi se non con l’unico elemento in grado di far capire quanto sia effimero il potere che l’uomo brama tanto di ottenere, chiudendo tutto quello che era rimasto in sospeso. Alla fine di tutto non sono Aureliano e Spadino i veri protagonisti, perché non è con loro che la storia si conclude. Il rapporto tra i due ragazzi ambiziosi è stato la colonna portante di tutte le stagioni e il sacrificio di Aureliano è solo l’ultimo grido di speranza possibile per un’umanità alla deriva. Il respiro profondo di chi ha capito che non vale la pena combattere se non si lotta per amore.

Con un addio straziante ma necessario, Aureliano ha messo da parte se stesso, consapevole che Roma non sa dare il tempo di soffrire e di rialzarsi ma ti abbraccia e poi ti stritola, ti schiaccia e va avanti. Roma non si cura di chi cammina fra i suoi sampietrini, guarda dall’alto della Cupola di San Pietro e attende che qualcun altro prenda le sue redini, per inghiottirlo ancora in una spirale infinita di dolore e corruzione.

Siamo solo pedine in un gioco più grande e Roma non si ferma con la morte di un uomo. È e sarà sempre lei la vera protagonista della storia.

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