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Full Monty – La serie: un revival che poi tanto revival non è

Correva l’anno 1997 quando la commedia Full Monty, nota in Italia con il sottotitolo Squattrinati organizzati, usciva al cinema divenendo in poco tempo un piccolo, grande cult. Allora, un gruppo di uomini rimasti senza impiego dopo la crisi del settore dell’acciaieria, fino a quel momento motore economico della zona, aveva deciso di tentare il tutto per tutto cimentandosi in uno spettacolo di spogliarello dal vivo, dando così una scossa a delle vite grigie, spente e senza prospettiva. Lo spunto dello strip, seppur con la comicità che esso portava in scena, d’altra parte, era solo un pretesto per parlare di altro: disoccupazione, precariato, il senso di impotenza di fronte a un mondo da cui si viene costantemente esclusi, un grido di aiuto che impiegava la satira e l’umorismo per denunciare una società in decadenza. Ora, a distanza di ventisei anni, ecco sbarcare su Disney +, nella sezione Star, The Full Monty – La serie, che rivede tutto il cast del film originale al completo destreggiarsi in una società all’interno della quale si trovano ancora più persi, mentre tutto attorno a loro si evolve e cambia.

Questa operazione di rilancio/celebrazione avrà avuto senso? Ecco la nostra recensione di Full Monty – La serie. Buona lettura!

Full Monty
I protagonisti della serie (640×360)

Lo ammettiamo, freschi freschi da una revisione del film di Peter Cattaneo, di fronte al primo episodio della serie di Full Monty, non abbiamo potuto fare altro che sentirci un po’ spaesati. Certo, rivedere i volti storici dei personaggi di Gaz, Dave e degli altri, invecchiati e stanchi, ci ha fatto un certo effetto, ma quel che ci ha più colpiti è stata la scelta da parte degli autori (un ritornante Simon Beaufoy insieme ad Alice Nutter) di ampliare notevolmente gli orizzonti del materiale originale, arricchendo di parecchio il numero di personaggi, di storyline e di tematiche trattate. Ecco che quindi la serie diventa uno spaccato multigenerazionale in cui, attraverso varie prospettive e punti vista, possiamo andare a focalizzarci su numerose problematiche che caratterizzano le periferie, quei piccoli paesi della Gran Bretagna che vengono lasciati a sé stessi, come Sheffield, a simil modello di quanto potrebbe raccontare una serie come Shameless, sebbene in modo meno provocatorio e aggressivo. D’altra parte, se il film dell’97 si era concluso con un trionfo, un riscatto per dei disoccupati che non avevano nulla da perdere, la realtà in cui ognuno dei protagonisti, ora tra la mezza età e la vecchiaia, si ritrova sembra essere peggiore di quanto profilato un tempo.

Gaz vive in condizioni precarie e, almeno a inizio della narrazione, pare essersi ancora più involuto rispetto ad anni prima, incapace di essere un padre affidabile per la secondogenita Des, ragazza problematica e ribelle a causa di una situazione familiare instabile, nonostante provi seriamente a fare del suo meglio. D’altra parte Dave, che ora fa il bidello nella scuola superiore dove sua moglie Jane fa la preside, non se la passa meglio a causa di un tragico e pesante lutto che ha spento in parte la sua voglia di vivere. Lomper, che non sta più con Guy, gestisce una caffetteria di scarso successo con il marito Dennis (personaggio introdotto ex novo, ma che diviene fondamentale per la narrazione) al quale nasconde un grande segreto, Cavallo, invece, ormai molto malato e anziano rischia di perdere il sussidio di invalidità a causa di un cambio di politiche, mentre Gerald compare solo di rado come uno tra i clienti del cafè. A fianco del cast storico troviamo anche nuovi personaggi, da alcuni che nel film avevano solo un ruolo marginale, come la moglie di Dave, Jane, e Nathan, figlio di Gaz, ad altri introdotti da zero come Darren, amico del gruppo a cui viene dedicata un’intera sottotrama, l’insegnante di musica Hetty e alcuni studenti dell’accademia di Sheffield.

Horse “Cavallo” (640×360)

Tante storie, forse troppe, che si intrecciano per comporre quello che è un mosaico di vite in cui gioia e infelicità si alternano mettendo in luce i dolori dei protagonisti e le loro vittorie, per quanto limitate.

Questo perché questa Full Monty non è una serie facile da digerire: in maniera ben più drammatica e amara rispetto a quanto veniva rappresentato nel film, essa va infatti a colpire nel vivo portando in scena situazioni altamente tragiche e che solo in alcuni frangenti sono alleggerite dal fattore comico. Ognuno degli otto episodi che vanno a comporre questa miniserie si concentra in particolare sulla storia di uno dei personaggi andando a scavare in profondità e nei loro vissuti e portando a riflettere sulle più disparate situazioni: dal generale disinteresse per gli anziani in difficoltà e per le persone con disturbi mentali, alla povertà, dal fenomeno dell’accoglienza dei rifugiati al dolore della perdita. Certo, l’umorismo non è assente e grazie a una buona scrittura di dialoghi e personaggi riesce di tanto in tanto a stemperare la drammaticità presente, ma siamo comunque ben lontani da quel clima di divertimento che aleggiava nel film. Una decisione comprensibile dato l’approccio scelto per mettere in scena tale genere di vicende, ma che potrebbe non piacere a tutti, soprattutto a chi si aspettava di approcciarsi a un prodotto più leggero e che non restituisce completamente quello che era lo spirito della pellicola originale.

Full Monty

Quello che più manca alla serie, infatti, è quel senso di gruppo, di squadra a cui associavamo in nome di Full Monty. Concentrandosi forse un po’ troppo sulle storie dei singoli, finisce per venire in parte meno quella complicità che, quando portata in scena, funziona sempre.

Se dovessimo poi focalizzarci su un altro difetto, questo sarebbe l’eccessivo numero di storyline e di personaggi introdotti che finiscono per accavallarsi privandoci di un’unitarietà di fondo e che non hanno sempre trovato una risoluzione. Grande escluso, infatti, risulta essere il personaggio di Guy che, pur comparendo nelle prime puntate, finisce per scomparire e per essere completamente cancellato dalla narrazione. Ciò che ci ha più fatto riflettere, tuttavia, è questo: questa serie si sarebbe potuta intitolare in qualsiasi altro modo, sarebbe bastato modificare i nomi dei personaggi e tagliare una sequenza inneggiante al film. Quel che avremmo ottenuto sarebbe stata una buona serie tv che ha al centro un paese di provincia e i suoi abitanti. Cosa intendiamo dire? Che chiunque potrebbe vedere la serie senza aver visto la pellicola madre senza colpo ferire. Nessun “servizio completo” o storie che riprendono troppo strettamente il film vengono infatti portate in scena, un aspetto che da un lato costituisce un pregio e che evita inutili riproposizioni di un passato glorioso ma ormai alla spalle, ma che da un altro toglie quell’originalità che aveva reso il film un cult.

Full Monty, una scena dal film originale (640×360)

The Full Monty – La serie è, in definitiva, una storia commovente a capace di far riflettere, una satira sociale che sa farsi ben volere ma che funziona più come serie a sé stante che come revival, un prodotto di buona qualità sia per quanto riguarda la messa in scena che per quanto riguarda la sceneggiatura (salvo alcune esagerazioni o ingenuità sparse qua e là) che però non ricrea quell’alchimia che aveva reso grande anni addietro il film, nonostante le grandi interpretazioni degli attori, tra cui spiccano Robert Carlyle, Mark Addy (il re Robert Baratheon di Game of Thrones) e e di Paul Barber.

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