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Cry Macho – Ritorno a Casa: la recensione dell’ultima (forse) fatica di Clint Eastwood

Nel corso degli anni tante volte abbiamo pensato che la carriera di Clint Eastwood fosse al capolinea. Dopo l’indimenticabile Gran Torino del 2008, è arrivata l’accoppiata Invictus – L’invincibile (2009) e Hereafter (2010) a farcelo credere; poi soprattutto Jersey Boys (2014) che della mano del regista non ha assolutamente niente. Clint, però, non fa mai quello che immaginiamo e ci ha smentito costantemente con i suoi film potenti e consapevoli. Fino ad arrivare alla sua ultima fatica (in anteprima su Sky e Now Tv), quel Cry Macho – Ritorno a casa coerente con il suo spirito, ma capace di regalarci un personaggio che offre un punto di vista maschile spiazzante per essere di Eastwood, risultando dunque un vero e proprio studio su sé stesso e sul suo mito.

È inevitabile che Clint, a 91 anni, produca un film crepuscolare che rifletta su ciò che è stato, perché è questo che ci aspettiamo dagli anziani: il guardarsi indietro, dato che davanti non hanno molta strada. Ma ci sbagliamo, sebbene Cry Macho riprenda tantissimo dalla filmografia del suo regista/attore.

In particolare, Cry Macho si presenta come l’ipotetico capitolo conclusivo di un’ideale trilogia composta da Gran Torino e The Mule – Il corriere (2018).

Del secondo ripropone il road movie dagli scopi non proprio legali, portato a termine con la lentezza e la calma dell’anzianità, e il racconto meta-testuale dove Eastwood viene a patti col suo essere un autore classico e realistico, rivelandoci che in questo caso vuole solo narrare una storia, anche se bizzarra e un po’ fantasiosa. Da Gran Torino, invece, riprende l’idea della rappresentazione della sua icona, con quel suo personaggio anziano e solitario invischiato in due scontri ideologici: etnico e transgenerazionale. Sia in Gran Torino che nell’ultimo film, pone dunque la stessa domanda, quella che in fondo ha attraversato la sua intera carriera: cosa vuole dire davvero essere un uomo? Forse seguire alcune regole o comportamenti? A ciò Cry Macho risponde con un racconto che da classico western diviene contemplativo e l’indagine interiore farà capire a Mike e Rafo chi sono e dove vogliono andare.

Cry Macho

Soprattutto per un Clint Eastwood che non si vergogna nel mostrarsi in tutti gli anni che ha, in quel corpo fragile come lo è il suo film.

L’ultima fatica di Eastwood è, infatti, un’opera debole, testarda e datata, volutamente scadente, con personaggi che sembrano delle figurine senza spessore. Ci chiede un patto totalizzante, soprattutto quando emergono i vari buchi di trama e le incoerenze narrative. Insomma, tutte le donne si innamorano di Mike all’istante e Rafo lo segue incondizionatamente, cambiando idea in una sola inquadratura? Poco credibile. Ed è qui che Clint dimostra la sua bravura, se mai che ne fosse ancora bisogno.

Abile nel non tirarla per le lunghe con la sua solita essenzialità e asciuttezza, ci rivela che questa pellicola non è altro che un gioco autoreferenziale, in cui continua la decostruzione dell’uomo macho tutto d’un pezzo che ha incarnato per gran parte della sua carriera. Già in The Mule, infatti, aveva sconvolto tutti con un personaggio agli antipodi rispetto a quelli precedentemente interpretati. Con Mike Milo, alter-ego dello stesso Clint, sbeffeggia gli uomini del suo passato e in un certo senso fa autocritica, rimproverandosi di non averci fatto comprendere abbastanza che per lui essere nei panni di quei pistoleri (che rendeva già così spartani rispetto all’epica hollywoodiana classica) era più che altro un gioco.

Ormai non è più il tempo del cowboy senza macchia e senza paura e Mike si oppone proprio a quell’idea che Rafo ha assorbito dell’essere uomo (espressa metaforicamente dal combattimento tra galli e ribaltata dall’ossimorico titolo del film): forte e duro in ogni occasione, senza mai mostrare i propri sentimenti. Certo, non rinuncia a un pugno quando è necessario. Però, sono i momenti di tenerezza – come quella voce commossa che rompe il buio della scena – in cui si respira quel cinema elevato a cui Clint ci ha abituato.

Cry Macho è, infatti, intriso di sentimentalismo, forse anche troppo affrettato e confuso, ma che in qualche modo riesce a far funzionare il film. Del resto, Eastwood non si è mai fatto problemi a girare pellicole sentimentali, la sua età non è un impedimento per questo e non lo è nemmeno la sceneggiatura pasticciata di un’opera che ci dice sempre dove volgere lo sguardo. E non è verso scene o plot twist poco credibili. È attraverso gli occhi di Clint che dobbiamo guardare, perché è la sua visione che filtra il mondo che osserviamo in Cry Macho. Ecco perché la madre di Rafo e gli altri scagnozzi appaiono come delle macchiette senza profondità drammatica, dei bambocci vanesi che giocano a fare i boss della droga: è così che il cineasta li vede.

Dobbiamo anche guardare alla dolce e impossibile amicizia tra Mike e Rafo, che va oltre le banali e scontate parole che devono dire. E, infine, nella rappresentazione della polizia e dell’autorità, viste come una mera esibizione di forza muscolare – come in Richard Jewell e in The Mule. Ma il valore è un’altra cosa per Clint, non dipende da un distintivo o una posizione e in Cry Macho lo esprime perfettamente, anche se l’esempio più lampante rimane Richard Jewell.

Bisogna soprattutto guardare al tempo, vero protagonista di Cry Macho.

In The Mule, sebbene la vecchiaia, Earn riesce comunque a fare le cose in tempo, perché quest’ultimo lì rappresenta l’attimo da prendere al volto, prima che un’esistenza ormai alla fine cessi per sempre. Di fronte alla DEA indietreggia, quasi come volesse recuperare un istante ormai perso. Mike, invece, fa le cose prendendosi il tempo che serve. Non arretra mai, camminando sempre in avanti, claudicante e con il peso degli anni sulle spalle, consapevole che gli resta solo un obiettivo adesso: fermarsi a casa. E lo farà al momento giusto, come lo stesso Clint che, alla sua età, non smette di evolvere e studiarsi. Riscatta il tempo della vecchiaia e rievoca quello del ricordo, con quell’ultimo ballo sfuocato e pieno di luce che ci richiama alla mente la dolce danza de I ponti di Madison County. Crea una pellicola piena di difetti sì, ma che diventano superflui di fronte alla grandezza e al coraggio di un sempreverde Clint, che sa ancora emozionarsi e far emozionare. E allora non resta che continuare ad ammirare questo giovane 91enne, sperando di vederlo di nuovo al cinema. Anche solo un’ultima volta.

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