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Locke & Key – Basta trovare la chiave giusta

Non mi ricordo di aver sentito parlare di Locke & Key prima di essermela trovata davanti in un giorno qualunque dopo aver aperto Netflix (ecco le novità in arrivo). Forse è proprio a questa premessa che devo la catena di conseguenze e di pensieri che mi si affastellano nella mente e che proverò a riordinare qui.

Inizierò mettendo in chiaro la mia posizione: a me è piaciuta. Non una roba da urlare al miracolo, sia chiaro, ma l’ho guardata davvero con piacere. Il fatto di non avere aspettative sicuramente ha inciso in tal senso, ma non è stato di certo solo questo.

Locke & Key

Il creatore della serie è lo stesso del fumetto omonimo da cui essa è tratta, un certo Joe Hill, un nome che non ti dice niente fino a che non lo vedi in faccia o non ne scopri la versione completa: Joseph Hillstrom King. Si tratta, infatti, del figlio del celeberrimo (e per sempre sia lodato!) Stephen King (state vedendo l’adattamento del suo ultimo romanzo?). La trama già di per sé ha diversi punti di forza, nulla di rivoluzionario, ma è abbastanza originale da catturare l’attenzione.

Rendell Locke, padre di una normalissima famiglia americana, viene brutalmente assassinato davanti agli occhi dei tre figli e dell’amata moglie. I quattro superstiti traslocano nella vecchia casa in cui il defunto è cresciuto, Key House, a Matheson, un piccolo paesino della rurale provincia americana. Qua i quattro entrano a contatto con la magia e con alcune chiavi misteriose, ognuna capace di qualcosa di straordinario.

Dal punto di vista narrativo alcune trovate – si pensi al finale – sono abbastanza telefonate, ma anche qui Joe Hill mescola il tutto con una buona dose di originalità e lo spettatore si ritrova a pensare: “Ci avevo pensato, sì, ma non così“. Che è un buon risultato dati i tempi e la quantità di narrazione che fruiamo.

C’è qualche altra piccola chicca degna di nota in Locke e Key.

locke and key

Per esempio questa idea del male che muta forma e seduce entrambi i fratelli maggiori, differentemente dal bambino che diffida dell’uomo le cui sembianze ha preso questo insieme di ombre. Li seduce fisicamente, sottoforma di Dodge con Tyler e di Gabe con Kinsey. Quando l’oscurità assume le sembianze di Lucas, invece, il piccolo Bode si mostra immediatamente sospettoso e ne prende le distanze. Come a dire che siamo tutti suscettibili al male, ma lo siamo solo una volta usciti da quell’era di innocenza che chiamiamo infanzia.

Un’altra cosa che mi è particolarmente piaciuta è la rappresentazione della paura e della sua funzione. Anche in questo caso non ci troviamo di fronte a qualcosa di innovativo, ma di estremamente efficace dal punto di vista comunicativo.

Ripercorriamo, stringatamente, i fatti.

Kinsey Locke, la secondogenita della famiglia, dopo essere entrata nella propria testa tramite la chiave apposita e avere incontrato di persona la propria paura, che ha le sue stesse sembianze ma in versione mostruosa, decide di seppellirla. Se la toglie dalla testa, la rinchiude accuratamente in un sacco, scava una fossa e ce la getta dentro. Non abbiamo tre anni e conosciamo troppe storie per avere l’ingenuità di credere che estromettere una qualsiasi emozione dalla nostra vita non porti alla catastrofe, ma Locke & Key ce lo mostra bene.

La paura graffia, ferisce, ammazza, è forse la parte peggiore di noi, ma non possiamo liberarcene e, come ci mostra la storia di Kinsey, forse non avrebbe nemmeno senso farlo se ne avessimo la possibilità. Quello che però dovremmo cercare di fare è riconoscerla, guardarla in faccia, scoprire che non si tratta di qualcosa di tanto distante da noi, ma solo di una versione di noi – la parte di noi – più “sporca” e mostruosa. Dobbiamo riconoscerci in essa, capire come attacca e poi toglierle, entro il limite del consentito, la possibilità di farlo, con noi e con chi ci sta intorno.

Kinsey ha trovato una chiave che non ha la fisicità reale delle altre, ma che è quella di cui aveva bisogno lei. Resa schiava dalla paura si colpevolizzava senza intuire la dimensione mastodontica del suo coraggio. Non quello fittizio acquisito dopo aver seppellito la propria paura (quella in fondo è incoscienza, nulla più), ma quello reale che l’ha spinta a salvare ben due volte suo fratello minore. Kinsey, in fondo, ha trovato la chiave giusta.

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