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Homeland 8 richiama i fantasmi di un passato vicino e lontano

È difficile essere pronti ad abbandonare qualcosa a cui si è abituati da anni. Homeland ha segnato un lungo periodo delle nostre vite e nel bene o nel male è sempre stata lì, quasi ogni anno, a tenerci con il fiato sospeso e la tensione alle stelle.

Dalla terza stagione un po’ di cose sono cambiate: dalla morte di Brody fino agli innumerevoli crolli emotivi di Carrie, tutto ha contribuito adesso a rendere Homeland 8 un prodotto complesso e sui generis.

Questa ottava e, ahinoi, ultima stagione è iniziata proprio domenica scorsa. Da qui dobbiamo cominciare in qualche modo a prendere le distanze e allo stesso tempo dobbiamo continuare a farci sorprendere e coinvolgere come sempre in quella che sarà un’altra stagione all’insegna del thriller e del drama.

Homeland 8

Le potenzialità per un inizio straordinario c’erano tutte, dal rapporto ormai cancellato con la Russia alla ripresa emotiva di Carrie. Stavolta è difficile: è complesso poter dire se anche in questa occasione saprà riprendersi e per quanto tempo. O almeno, così era la sensazione fino a questa nuova puntata, quando in pochissimo tempo si torna a vedere qualcosa che ci era mancato da tempo.

Sin dall’inizio di puntata Carrie sembra spaventata dal suo passato, da ciò che ricorda, ma soprattutto da quello che ancora non riesce a ricordare. Sembra essere finalmente in pace con un percorso di recupero e con ciò che accade nel mentre. Ma le pressioni per una possibile tregua con il Medio Oriente si fanno insistenti e Saul ha bisogno di lei.

Dopo aver passato 213 giorni in un gulag russo, Carrie torna in campo e lo fa ricordando metaforicamente il passato, le prime stagioni, quando sul campo viveva e sopravviveva. Ma ovviamente è dalla CIA che arrivano le prime minacce. La prova del poligrafo non superata per Deception Indicated e la tendenza a non farla rientrare nell’agenzia sono espressioni che abbiamo già visto in passato. A differenza del passato, però, la posta in gioco premia Carrie e Saul.

Homeland 8

Homeland 8 comincia come nessun’altra stagione è cominciata. Con la volontà di una pace duratura. Saul è ora consigliere per la sicurezza nazionale del presidente Warner e il suo è ovviamente il compito più arduo. Non può non sfruttare la più grande ed efficiente risorsa che ha a disposizione.

Nel mentre Turrow è sempre più convinto, o vuole sempre più convincersi, che Carrie sia una agente compromessa, creando attorno a lei in Medio Oriente un ambiente difficile da gestire.

Max è sul fronte di guerra per una missione complementare a quella di Carrie cercando di ripristinare la fonte di comunicazione persa in una delle celle più importanti della zona. D’altronde nel patto con i talebani c’è la clausola di dover rilasciare mille soldati nemici, senza dimenticare che Hasan Hakhami è ancora vivo da qualche parte.

Diventa chiaro come questa stagione si profili già da ora come la fine di un ciclo. Si torna sul campo e nel contempo si abbandonano gli uffici delle scorse stagioni. Carrie è di nuovo nel pieno di una missione che ancora una volta la vede protagonista. Come a voler unire tutti gli elementi chiave delle scorse sette stagioni, la ritroviamo soldato in prima fila ma comunque terribilmente legata al suo passato e ai sensi di colpa.

Sappiamo quanto sia difficile che possa aver rivelato l’identità di una sua risorsa e questo sarà un ottimo spunto da approfondire nel proseguo della stagione.

Godiamoci questo nuovo inizio, anche se porterà alla fine di una serie a tratti gigantesca, con l’inserimento di chiavi di lettura che spingono verso il capolavoro ma che, forse, negli anni ha perso qualcosa, pur riuscendo sempre a farsi guardare con interesse e devozione. Per chi ha deciso di non abbandonarla con la morte di Brody, si è arrivati a questo punto con la voglia di vedere una stagione e un finale di serie all’altezza di tutto ciò che negli anni è accaduto.

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