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Homeland avrebbe dovuto parlare più di psicologia e meno di politica?

Poche settimane dopo il decennale dell’attentato alle Torri Gemelle sul canale televisivo a pagamento Showtime venne trasmessa la prima puntata di una nuova serie e fu un successo strepitoso (qui vi raccontiamo cinque momenti clamorosi).
Basata sulla serie israeliana Prisoners of War creata da Gideon Raff, Homeland, andata in onda per 8 stagione dal 2011 al 2020 per un totale di novantasei episodi, è un thriller spionistico americano sviluppato da Howard Gordon (sceneggiatore, tra le altre cose, di 24) e Alex Gansa (produttore, tra le altre cose, di Numb3rs) che ha ottenuto critiche ed elogi ampiamente positivi e ha vinto oltre trenta premi tra cui due Golden Globe come miglior serie drammatica e svariati Emmy.

Homeland racconta la vita travagliata di un’agente di rango elevato della CIA affetta da disturbo bipolare, Carrie Mathison, coinvolta nella perenne lotta tra il ciò che è giusto ma non sempre bene e ciò che è sbagliato ma non sempre male. Se nelle prime quattro serie lo fa come membro dell’Agenzia, dalla quinta all’ultima Carrie si ritroverà, volente o nolente, in mezzo a giochi di potere più grandi di lei che la costringeranno, per senso del dovere, per amicizia e per devozione, a stravolgere la sua vita e quella di chi le sta attorno.
Già da questo brevissimo incipit è facile comprendere quali siano gli argomenti trattati dalla serie pluripremiata: la politica, prevalentemente estera ma anche interna, e la psicologia dei personaggi.

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In una intervista l’allora presidente in carica Barack Obama definì Homeland come una delle sue serie televisive preferite. La serie di Showtime era in ottima compagnia. Infatti, a completamento del podio vennero menzionate anche House of Cards e Scandal. Per il quarantaquattresimo presidente tutte e tre le serie, su piani ovviamente differenti, avevano in comune il tratto della verosimiglianza, in particolar modo Homeland. Del resto lo stesso Gansa ammise che, dopo la terza stagione, erano soliti, insieme a Gordon, andare a Washington DC per incontrare alti papaveri del National Security Council della Casa Bianca (organo deputato ad offrire al presidente in carica informazioni sulla sicurezza nazionale ed estera) per chiedere consigli e ricevere spunti da sviluppare in seguito nelle sceneggiature della serie. In diverse occasioni furono gli alti papaveri a rigirare la domanda chiedendo loro se avessero delle idee di come sistemare “certe faccende ancora in sospeso”, il tutto condito da grasse risate.
L’incredibile verosimiglianza è presente non soltanto nelle trame politiche e di spionaggio ma anche nel come è stata trattata la patologia della protagonista. Infatti, eminenti medici psichiatri appartenenti all’American Psychiatric Association hanno più volte elogiato l’interpretazione convincente di Claire Danes nel ruolo di una persona affetta da disturbo bipolare.

Potrebbe essere tutto un grande, meraviglioso scherzo. Non fosse che, nel corso delle otto stagioni, Homeland ha raccontato una serie di eventi che poi si sono rivelati molto reali e concreti. Per esempio la firma del trattato sul nucleare con l’Iran, le accuse alla Russia di aver interferito con le elezioni di Trump, le trame terroristiche in Europa non dimenticando i droni nei cieli dell’Afghanistan che producevano danni collaterali umani piuttosto ingenti. Homeland in questo senso è riuscita a darsi praticamente una doppia funzione: quella di intrattenimento puro e semplice e quella di controverso commentario della politica americana creando, di fatto, un doppio pubblico molto partecipe.

Alex Gansa e Howard Gordon arrivano entrambi dall’aver sceneggiato intere stagioni di 24 per cui sanno di cosa parlano. Lo si capisce molto bene nel primo incontro tra la protagonista e il suo mentore, Saul Berenson (interpretato da Mandy Patinkin): pur soffrendo entrambi per non aver capito i segnali precedenti l’11 settembre lo fanno in maniera diversa. Una macerandosi l’animo, l’altro, in maniera più filosofica, cercando di assolverla da peccati più grandi di lei.
A differenza di Jack Bauer, protagonista di 24, che, come un cavaliere senza macchia e senza paura, salva il mondo da attentati sempre più grandi, Carrie Mathison è una specie di sineddoche che rappresenta le ferite non ancora cicatrizzate di un’America ancora sconvolta dal più tragico attentato subito.

Pur avendo una maggiore raffinatezza politica rispetto a 24 Homeland è risultata piuttosto controversa venendo accusata da più parti di essere uno show un po’ troppo esagerato sotto diversi punti di vista tanto da ricevere critiche non soltanto dalle comunità islamiche americane ma anche dai governi del Libano, dell’Iran e del Venezuela. Al di là degli errori tecnici (la CIA, per esempio, non può operare sul suolo americano) che sono chiaramente accorgimenti di sceneggiatura, dal punto di vista geopolitico Homeland è stata vista come l’ennesimo tentativo propagandistico americano che dipinge lo straniero, indipendentemente che sia ricco o povero, intelligente o stupido, come il nemico da combattere. In questo senso anche il nemico interno, spesso un traditore, risulta essere, in un certo senso, uno straniero, da intendersi come colui che è diverso nel modo di pensare e di agire rispetto al nostro. La serie è stata inoltre accusata di essere troppo repubblicana, razzista e islamofobica, incapace di sfuggire alla classica stereotipizzazione dei personaggi che non fanno parte dell’entourage di Carrie Mathison.

Per poter dare una risposta alla domanda posta nel titolo occorre proprio puntare i riflettori su di lei, la protagonista, partendo dal presupposto che Carrie è un agente della CIA affetto una malattia mentale grave e debilitante, per altro nascosta ai suoi superiori, che in diverse occasioni, smessa la terapia farmacologica, l’aiuta a vedere il mondo da una prospettiva diversa rispetto ai suoi colleghi.
Carrie non è James Bond. Non è nemmeno Anne Walker di Covert Affairs, né tanto meno Charleston Tucker in State of Affairs. Non è quell’ agente segreto a cui riesce tutto, più o meno facilmente. Carrie è in perenne lotta con se stessa, con la sua malattia che riesce a tenere a bada ma che la penalizza spesso e volentieri, con la sua famiglia che si preoccupa per lei interferendo nella sua vita lavorativa, con i suoi colleghi che non sono in grado di riconoscere quanto sia in gamba, con i suoi nemici che cercano di farle la pelle, con i suoi capi che non le credono e preferiscono fare di testa loro (sbagliando, ovviamente) e con il mondo intero che non la lascia mai in pace. Anche quando ormai è fuori dalla CIA c’è sempre qualcuno che, fregandosene bellamente dei suoi problemi e facendo vigliaccamente leva sul suo senso del dovere, cerca di farla tornare in gioco. Certamente Carrie ci mette del suo ma non potrebbe essere diversamente perché in lei il senso di sacrificio è talmente alto da renderla incapace di comportarsi diversamente rendendosi sempre disponibile verso un paese che spesso l’ha rifiutata.

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Chi le sta attorno non solo non è in grado di capirla ma fa di tutto per ostacolarla. Non la capiscono suo padre e sua sorella: il primo perché malato come lei, la seconda perché è un medico e come tale non è in grado di concepire l’autoannientamento di Carrie. Non la capiscono i suoi colleghi, nemmeno Saul Berenson che nel corso delle stagioni è stato suo mentore e poi una specie di padre, suo alleato e poi suo avversario. Non la capisce Peter Quinn (che però darà la vita per lei) figuriamoci uno come Dar Adal (interpretato magnificamente da F. Murray Abraham, già Salieri nel capolavoro di Milos Forman, Amadeus). Non la capisce la presidente eletta che prima chiede i suoi consigli e poi la licenzia facendo di testa sua.
Probabilmente perché non si capisce nemmeno lei, sempre con quegli occhi sbarrati, quella bocca storta e sofferente, quella voce dura e metallica, mai tranquilla, perennemente insoddisfatta, maniaca del controllo e disposta letteralmente a tutto pur di provare a colmare un vuoto che si porta dentro da chissà quanto tempo. Carrie è così: incredibilmente bella, incredibilmente complessa, difficile da digerire, o la si ama o la si odia.

Homeland parla di psicologia e di politica. La prima crea i personaggi, la seconda è creata dai personaggi. In entrambi i casi più ci si allontana dai protagonisti principali della serie più questi elementi sbiadiscono risultando marginali alla trama. Essendo un thriller che parla bene di spionaggio (secondo gli addetti ai lavori) tratta la politica in maniera congrua alla trama. Lo stesso fa per la psicologia: partendo da Carrie e allontanandoci da lei i personaggi vengono sempre meno definiti fino a rendersi semplicemente utili alla storia, senza troppe complicazioni. Se lo fossero, complicati, rischierebbero di sbilanciare il giocattolo spostando tutto l’equilibrio in un’altra direzione non certamente utile per fare di Homeland un capolavoro ineguagliabile, che ti tiene incollato allo schermo e facendoti trattenere il respiro fino all’ultima puntata.
Inizialmente gli autori hanno provato, con le prime tre stagioni, a portare avanti più un discorso psicologico che politico ma essi stessi hanno ammesso in diverse interviste che non ne erano in grado. Una volta, infatti, definiti i personaggi principali, Clarie, Saul e Brody (interpretato da Damian Lewis), gli altri sono veramente visti e rivisti (come i figli e la moglie del sergente dei Marines, per esempio, che fanno esattamente tutto il contrario di quanto gli viene detto di fare).
Piano piano, dunque, la parte politica prende il sopravvento fino a diventare parte integrante della storia. Del resto i personaggi agiscono in base a un’idea ben precisa che è un’idea politica sulla quale, ovviamente, si può stare a discutere all’infinito.

Homeland

Homeland è una serie che forse avrebbe potuto parlare più di psicologia per definire sicuramente meglio i cosiddetti cattivi. Non tanto per far capire al telespettatore il perché siano dall’altra parte della barricata quanto per differenziarli meglio dai cattivi delle altre serie, quasi sempre molto banali.
Ma per quello che è, Homeland non avrebbe dovuto parlare di più di psicologia perché avrebbe stravolto la sua natura che è quella che piace a chi l’ha guardata e l’ha amata, dall’inizio alla fine. Parlare più di psicologia e meno di politica l’avrebbe resa probabilmente indigesta. Homeland va bene così com’è. Sopportare i turbamenti di Carrie e quelli di Saul presenti nella serie senza rimanerne intimamente scioccati sono il massimo che si può chiedere a uno spettatore che vuol passare un’ora davanti allo schermo, dimenticandosi di quello che è il mondo fuori.
Del resto, non è un caso che la serie si concluda proprio con Carrie e Saul lasciando a loro due le ultime scene finali. In quei lunghi momenti in cui tutto sembra procedere verso una fine ineluttabile, carica di sgomento e di incertezza il sorriso di Carrie come ultimo atto è, forse, il sintomo di una felicita finalmente trovata ed è un premio inaspettato che commuove tutti: quelli che l’hanno amata ma anche quelli che l’hanno odiata.

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