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Se ti senti persa, ricordati di guardare Fleabag

Fleabag non si ferma mai. Come una trottola, gira su se stessa nella speranza di poter sviare qualsiasi punto di contatto con il vuoto che porta dentro. Se questa sia una strategia vincente non è ancora dato sapersi, ma una cosa è certa: qualche volta, la notte, quando rimane da sola e la città non fa più rumore, Fleabag capisce che deve inventarsi qualcosa da fare. Munendosi di un bicchiere di vino, leggendo la pagina più bella del suo libro preferito, alzando il volume di un programma che mai prima di quel momento avrebbe guardato, cerca di distrarsi inventandosi metodi che mai prima di quel momento avrebbe contemplato. Non è la solitudine il problema, anzi. Forse è soltanto dentro quella stanza buia che Fleabag riesce a sentirsi al sicuro, lontana da tutto quello che avrebbe dovuto fare per non vivere morsicata da continui sensi di colpa che non sembrano possedere altra volontà se non logorarla dalla testa ai piedi, fino ad arrivare a quel vuoto che porta dentro. Qualche volta si ferma un attimo. Lascia il bicchiere da qualche parte e comincia a sistemare da una parte all’altra tutti i libri impolverati, tutti i suoi oggetti sparsi. Ma quello che ancora non sa è che non è loro che sta spostando. Non è a loro che sta dando una sistemazione, ma a se stessa. Facendo finta di niente, Fleabag prova a darsi un contegno, un ordine, una destinazione.

Siamo tutti miseramente persi. Dei clown che fingono di sapere ridere, anche se oppressi da un lacerante dolore. Siamo tutti Fleabag, e Fleabag è tutti noi

Fleabag (640×360)

Non avrebbe mai potuto capirmi, perché a me piacciono troppe cose, e io mi ritrovo sempre confuso e impegolato a correre da una stella cadente all’altra finché non precipito. Questa è la notte, e quel che ti combina. Non avevo niente da offrire a nessuno, eccetto la mia stessa confusione.

Sulla strada, Jack Kerouac

Fleabag non lo sa. O almeno, non lo sa più. Divisa tra la volontà di voler padroneggiare la sua vita e la sensazione che questa non sia altro che una nemica sprezzante, la nostra protagonista cerca di sopravvivere senza addomesticarsi troppo. Il punto più basso, d’altronde, lo ha già raggiunto: serve a qualcosa adesso migliorare il colpo? Adesso che quel che non doveva essere fatto è stato già fatto e il punto di non ritorno varcato? Non è il caso, forse, di migliorare proprio adesso che non serve a niente. Ha bisogno del suo vuoto interiore, della sua meritata pausa da tutto. Dai sentimenti, dall’agonia, dall’angoscia. Riuscire a non sentire niente è una gran fortuna, se ci riesci. Per un po’ di tempo, almeno. E anche se è un concetto cinico e disilluso, che forse sarebbe meglio non consigliare mai a nessuno, a Fleabag non importa. Si attacca a lui come una sanguisuga, utilizzandolo a suo piacimento. Lei e il suo dolore fanno lo stesso gioco. Si usano a vicenda dando vita a una rapporto contorto in cui non vince e non perde nessuno. Anche se non le fa onore, è l’unica cosa che le rimane. L’unica cosa che adesso la possa tener lontana dalle illusioni che, come è già successo, potrebbero diventare per lei delle armi nucleari.

In modo forse contraddittorio, Fleabag è la sua stessa spietatissima carnefice. L’autoconservazione sussiste, ma il modo con cui la mette in pratica finisce per sortirle l’effetto opposto. Lei vuole star lontana da tutto e da tutti, perfino da sé. Staccando l’interruttore che genera emozioni, Fleabag vivacchia cercando nel nulla il suo personalissimo tutto. Per un po’ di tempo questa tecnica funziona, ma siamo esseri umani, non macchine, e come tali siamo guidati da un istinto che ci porterà un giorno o un altro a sentire di nuovo, ad amare di nuovo. Il percorso di Fleabag è chiaro, trasparente, reale. Dopo non aver sentito, ritorna a sentire grazie a un essere umano che individua lungo la corsa. Non è come tutti gli altri. E’ diverso, quasi un eroe. E’ l’unico che riesce a restituirle quella sensazione che le mancava da tempo: può ancora essere amata, può ancora amare.

Se ti senti perso, ricordati di guardare Fleabag. Perché lì ci sono tutte le risposte, anche quelle che non vorresti mai sentire. Guarda Fleabag, perché scoprirai di non essere da solo. Forse è una magra consolazione, ma ti potrà servire quantomeno per ricordarti che non sei fatto male. Sei solo in un momento difficile, uno di quelli che ti inghiottono dentro di sé non facendoti mai vedere la luce in fondo al tunnel, anche se c’è. Perché c’è sempre, anche se ti sembra assurdo. Perfino lei credeva che non ci fosse. E’ questo d’altronde il motivo per cui ha annullato tutto quel che poteva sentire fino a quando ha potuto. Ma un bel giorno, quando meno te ne lo aspetti, succede qualcosa che ti riaccende la luce e che un po’ te lo fa pensare: questa tragedia può chiudere il suo sipario adesso.

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Fleabag (640×360)

Fleabag ha vissuto in quella stanza, un po’ per egoismo, un po’ per precauzione. Da lì dentro, finalmente, poteva comportarsi come avrebbe voluto senza rischiare di far male a nessun altro. Per un po’ ha funzionato, ma poi è successo. La sua luce portava gli occhi di chi non avrebbe mai potuto avere, il viso che non avrebbe mai potuto sfiorare. Era tutto ancora una volta impossibile e triste, ma era finalmente qualcosa di paragonabile alla vita nella sua totalità, nella sua intensità. Fino a quel momento, la protagonista non avrebbe mai spiegato a nessuno la sua instabilità perché convinta che non potesse essere colta, che le sue parole non avrebbero restituito il valore del suo smarrimento. Che tutto, agli occhi degli altri, avrebbe soltanto creato una lunga serie di frasi comuni come ma stai tranquilla, non ci pensare. Andrà tutto bene.

Soltanto colui che sappiamo è riuscito a percepire la vera anima di Fleabag, a capire che la sua passata emozione fosse priva di emozione. Come la periferia di una città inesistente, come diceva Pessoa, Fleabag ha sempre creduto di essere il centro di tutto ma con il nulla intorno. Non c’era speranza, esattamente come pensiamo noi. Inghiottita da un niente che la porta a vivere distaccata dalla possibilità di rimettersi in gioco, la nostra protagonista ci riprova consapevole del fallimento. Lo fa perché riemerge dal pozzo tetro in cui era andata a finire. Lo fa perché trova qualcosa, qualcuno, che riesce a farle capire che arriva un punto nella nostra esistenza in cui dobbiamo accontentarci di essere fatti come siamo, consapevoli che nessuno ci premierà con una medaglia al valore perché ci siamo rassegnati alla nostra essenza. Non dobbiamo poter voler nulla in cambio per questa operazione. Soltanto una volta compiuto questo passo, saremo di nuovo in carreggiata.

Credeva di non potersi più permettere alcun altro passo falso, ma non per ragioni che hanno a che fare con poco coraggio, ma per prevenzione. Ma questo non è vivere: è sopravvivere. E, almeno che non si è dispersi in un’isola deserta come in Lost, le due cose sono estremamente diverse tra loro. Bisogna riprovarci, anche se appare assurdo. Che persona, Fleabag. Non c’è nulla più di lei che possa dimostrarci che esiste sempre qualcuno più infelice di un altro e che la felicità è una meta inesplorata per molti di noi. Guarda Fleabag, se ti senti perso. Datti questa possibilità, scruta in lei la sua solitudine, scopri quanto sia umano avere la necessità di allontanarti per un attimo da tutto, e poi guardala mentre – lentamente – rifiorisce. Se ti senti smarrito, guarda Fleabag. Fallo per scoprire che non c’è niente di male nel sperare che il mondo sia qualcosa che in realtà non vuole essere. E’ una terapia d’urto, un modo piuttosto efficace per riuscire a guardare di nuovo la propria vita e pensare: ma sì dai, è tutto in fumo adesso. Però non facciamone una tragedia.

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