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Breaking Bad è perfetta. Ma ce l’ha una morale?

Del capolavoro di Vince Gilligan si è già scritto molto, forse troppo. Eppure, non c’è altro modo per metabolizzare Breaking Bad che scriverne. Perché, quando una Serie ti colpisce nel profondo, quando riesce a scavare una fossa dentro di te e a lasciare un vuoto irrisolto, l’unico modo per provare a colmare quella lacuna è analizzare le motivazioni che l’hanno generata.

Nelle pieghe di quest’opera, nelle vicende lontane eppure sentitissime che la caratterizzano c’è qualcosa. Questo qualcosa è un’inespressa accusa. Questo qualcosa è un’assenza pesante e terribile che ci accompagna ogni giorno. L’assenza, per certi versi, è una presenza. Fa rumore, si staglia sul resto e diventa viva. Diventa più viva di qualunque altra cosa perché ti costringe a guardare nel vuoto e ad avere paura.

Guardando in Breaking Bad, guardando nel percorso umanissimo eppure (o proprio per questo?) distorto di Walter White c’è una quotidianità strana.

L’avete percepita anche voi? Avete anche voi sentito in quelle vicende apparentemente distanti dal nostro mondo qualcosa di tremendamente familiare? Non so dove mi porterà questo articolo. Lo scrivo nella consapevolezza di non sapere in partenza quale sia la risposta. Ma ugualmente mosso della necessità di raggiungerla, o quanto meno provarci, a conclusione di questo percorso.

Ci sono strade in Breaking Bad. Scelte che si compiono, lente tappe verso qualcosa. Qualcosa da cui non si potrà poi tornare indietro. Qualcosa che diventerà tutto il nostro essere. È un disvelamento? Un cambiamento? Una presa di coscienza? Non possiamo saperlo, eppure quello che siamo, quello che Walter è o diventa è tutto in queste scelte. In questo lento, inesorabile percorso fatto di piccole, infinitesimali ma fondamentali tappe verso qualcosa di indefinito.

Forse bisognerebbe avere una certa età per comprendere meglio questo delicato passaggio. Forse servirebbe avere la distanza del tempo, tiranno ma a volte prezioso compagno, che c’aiuterebbe a rispondere a una fondamentale domanda: “Come sono arrivato a questo punto?”. Il tempo, però, può non essere necessariamente il nostro.

Può essere quello vissuto da altri nelle cui parole e nei cui percorsi umani riusciamo ad avere simulazione di una maturità che ancora non abbiamo.

Un tempo come quello, lontano e incredibile, vissuto da una donna che a oggi lotta per ripercorrere i suoi passi. Per riscrivere la sua storia. “La mia scelta di entrare in una organizzazione armata è stato il frutto di un lungo, lento, corteggiamento, un avvicinamento graduale, passo per passo. Come un meccanismo che, prima di mettersi in moto, faccia scattare tanti clic impercettibili, uno dopo l’altro fino al momento finale quando ogni passaggio è compiuto e la macchina è avviata in tutta la sua potenza”.

Quella donna è Anna Laura Braghetti, una ex-brigatista pentita. Nelle sue parole, in quella lucida, smaliziata analisi del suo passato c’è il senso di un viaggio che, per certi versi, è quello di Walter White. Che, per certi altri, misteriosi e notevolissimi versi, è anche il nostro. Nella nostra vita sentiamo questi clic. Li sentiamo nelle scelte che compiamo in ogni istante. Li sentiamo nei bivi della nostra esistenza. A volte ci portano a un’apparente strada morta. Altre ci spingono via via più in profondità.

Clic, dopo clic, dopo clic. Finché quello che siamo è ciò che abbiamo fatto. E il nostro Io non è altro che il prodotto di mille, sottili ingranaggi che hanno infine innalzato il muro invalicabile di una macchina che ormai viaggia da sola. Già, perché se prima ci trovavamo a compiere delle scelte, quando la macchina è ormai in moto non si tratta più di decisioni. Si apre davanti a noi un percorso obbligato. Walt in Breaking Bad compie questo viaggio.

Nel suo intimo sottosopra, in quella realtà contrapposta alla quotidianità costruisce se stesso.

Da un lato la famiglia, il lavoro, le incertezze e la goffaggine di una macchina ben avviata verso un percorso già scritto. Dall’altro il mondo capovolto: Jesse e la morbosità di un rapporto distorto; la produzione di meth; la certezza e la spietatezza di chi volta la faccia all’apparenza di un Walter per uscirne trasformato in un Heinsenberg.Breaking Bad

Clic, dopo clic, dopo clic. Il tempo si riavvolge in quel primo episodio di Breaking Bad. Le scelte compiute si annullano. Tutto torna al suo stadio iniziale. Una nuova nascita, un nuovo uomo. Clic, dopo clic, dopo clic Walter alza il muro di una macchina che inizia a essere sempre più oliata, sempre più completa, sempre più viva. E quando tutto è compiuto, quando non c’è altro che la carcassa della sua vita precedente, l’uomo nuovo è ormai maturo.

Il professor White da abile chimico spolpa le carni della sua esistenza. Scinde legame dopo legame quanto di buono e meno buono ha costruito. Tanto dentro di sé quanto al di fuori. Svuota se stesso e la realtà da una visione del mondo che ormai non è più valida per lui. Che, anzi, non lo è mai stata ma che in precedenza aveva scelto di accettare supinamente. In lui c’era, c’è sempre stato il vizio del lupo.

Spogliato dei suoi peli il lupo rimane pur sempre lupo. Walter è sempre stato Heinsenberg. Lo è sempre stato potenzialmente. Ma serviva un clic iniziale. Serviva un bing bang, un cosmogonico inizio per far sì che si creassero i presupposti per la vita del lupo. Che avvenisse la reazione chimica. Clic, clic, clic. Dai primi organismi unicellulari, fino ai mammiferi e, quindi, al lupo.

Dal bullone, al blocco, alla connessione dei blocchi. Dal legame chimico semplice a quello complesso.

Quando, in chimica, sussistono tutte le condizioni perché un fenomeno si realizzi, non è detto che avvenga. Si parla allora di “isteresi”, un “blocco” che può essere superato solo grazie a uno stimolo, un innesco, un pretesto. Walter trova questo pretesto nella sua malattia. E nelle giustificazioni che progressivamente, nel suo nuovo, perverso percorso, viene a darsi. Finché il lupo meccanico, il telaio di legami chimici che lo compone, non è completo (“cristallizzato”). Tutto, ogni suo gesto, ogni sua scelta, ogni errore, ogni istinto di sopravvivenza ha portato a Heinsenberg. Ha portato a lui.

Alla fine della quarta stagione Walter è davanti a se stesso. Breaking Bad ce lo restituisce nella sua essenza più pura, per quanto perversa. Ogni giustificazione è ormai alle spalle. Non serve più mentire. Non serve più dirsi che rimetterà tutto a posto, che tornerà indietro. Perché lui, indietro, non ci vuole tornare. Clic, clic, clic! L’incastro finale, l’ultima rotellina messa al suo posto e… Il meccanismo è completo.Breaking Bad

E noi siamo lì, con lui, complici di un percorso che abbiamo per certi versi vissuto anche noi. E davanti a noi è il vuoto. Il vuoto brutale di un’assenza pesante. Questa assenza affonda le sue radici in storie antiche, in racconti dell’infanzia, in paradigmatici quanto falsi percorsi di eroi mai esistiti. Affonda le sue radici in una morale solidamente e stolidamente irreale. Breaking Bad lascia il vuoto. Non giudica il suo “eroe”, non lo condanna e neppure lo esalta. Sembra guardarlo con occhio compassionevole ma nello stesso tempo freddo.

La macchina da presa indugia, partecipa, finisce perfino per commuoversi ma non smette mai di ricordare la sua funzione.

L’inesorabile missione alla verità, a una descrizione del mondo – anzi: dell’uomo – che non ammette ingentilimenti. Che non distribuisce moralismi, facili spiegazioni e lieti fine secondo merito. È là fino all’ultimo. Indefessa rappresentante della verità umana. O almeno di una verità, una delle tante. Quella di un uomo che ha risposto a uno stimolo che sentiva dentro di sé. Un bisogno che covava nel suo intimo e lo stava logorando. Breaking Bad spoglia l’uomo di giustificazioni. Ogni azione di Walt passa dal finalismo apparente (“Lo faccio per la mia famiglia”) alla verità nuda e cruda (“Lo faccio per me”).

E noi siamo là. Davanti a una verità essenziale e “atomica” (“a-tomos”, indivisibile, non-frammentabile). Una verità nuda che ci terrorizza e ci lascia nel vuoto logorante di una morale che non c’è. O meglio: che sta tutta lì, nella sua dirompente assenza, nella consapevolezza finale che possiamo solo sperare, clic dopo clic, che quello che abbiamo costruito non sia un impero di macerie putride. E che ogni scelta, rispondente a una nostra intima, inscindibile essenza fatta di decisioni irrevocabili, ci conduca a noi stessi. A scoprire quello che realmente siamo. Per quanto orribile, pure, esso possa essere.

E noi guardiamo nel vuoto e abbiamo paura. Clic, clic… Clic!

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