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A proposito di quell’opera visionaria intitolata Boris e della sua importanza storica.
Facciamo uno di quei giochini che si fanno spesso per evocare quanto stia correndo rapidamente il tempo in questo periodo storico. L’abbiamo fatto qualche tempo fa per rievocare il 1994 di Friends, mentre oggi sbarchiamo in un’era più vicina: il 2007. Sono passati diciotto anni: tanti, ma non poi così tanti… finché non pensiamo a come vivessimo in quel momento.
Il Presidente del Consiglio italiano era Romano Prodi, per dire. Facebook stava per vedere la luce, ma non era ancora parte delle nostre vite: in compenso, MySpace e MSN Messenger restituiscono l’idea che i Millennial abbiano vissuto cose che oggi sono, in sostanza, parte dell’archeologia digitale. Il primo iPhone era stato immesso sul mercato quell’anno, ma sembrava un oggetto degno di uno scenario fantascientifico vicino… ma pur sempre fantascientifico. Nel frattempo, giocavamo con Snake su cellulari indistruttibili, sopravvissuti a cadute da altezze improbabili. Vabbè, finiamola qui: risparmiamoci il solito excursus nostalgico. Perché nel 2007 andò pure in onda la prima stagione di Boris. Nell’indifferenza generale.
Già, nell’indifferenza generale: quando Boris comparve sui (pochi) schermi italiani, si ebbe da subito l’impressione che fosse un alieno rispetto a tutto il resto.
Scommise sul prodotto creato da Mattia Torre – quanto ci manchi – Luca Vendruscolo e Giacomo Ciarrapico un network a dir poco coraggioso, grazie soprattutto all’intuizione del produttore Lorenzo Mieli: Fox Italia. Più che una scommessa, però, fu un vero e proprio azzardo: Boris era quanto di più distante potesse esserci rispetto ai titoli imperanti sulla tv italiana. Molti dei nomi del cast erano già noti o stranoti, ma pochi li avrebbero immaginati in un contesto del genere.
Soprattutto, era un prodotto che aveva poco a che fare con le logiche della tv lineare. Fox era in quel momento una realtà periferica, seppure fosse ospitata nel bouquet Sky, e le successive messe in onda su Rai somigliavano all’irruzione di un elefante in un salotto di cristalli, ridotti in frantumi al suo passaggio. Il pubblico di Fox era marginale, quello della Rai confuso in gran parte dalla nuova operazione: Boris era altro. Eccessivamente altro. E soprattutto, era sbarcata in tv in un’epoca non sua: pareva arrivare dal futuro.
Insomma: Boris dava l’impressione di essere l’idea giusta al momento sbagliato. Nel posto giusto, limitato a una platea circoscritta. E quando finiva nel posto sbagliato, era quello stesso posto che la fuoriserie si riproponeva di satireggiare e prendere per i fondelli.
Vabbè, la storia è nota: Boris aveva tutti i crismi del sogno creativo, inevitabilmente effimero. La tv italiana, d’altronde, era un’altra roba: negli anni nei quali la golden age della tv americana stava prendendo forma e si era già messo alle spalle quel capolavoro de I Soprano, il piccolo schermo del nostro Paese si affidava ancora alle certezze ataviche delle fiction più rassicuranti e, parallelamente, alla forza visione dell’autorialità di Sky, nascente sotto la forma immortale di Romanzo Criminale. E a proposito, sì: non è un caso che associamo le due serie. Non perché abbiano qualcosa in comune, ma perché definiscono l’idea che in quel periodo si stesse muovendo qualcosa: in superficie, grazie alla fortunatissima serie Sky, e sottotraccia con l’avvento di Boris. L’idea che la tv potesse essere quella cosa che gli americani stavano già vivendo: altro, al di là delle forme assunte.
Sia chiaro, però: quella italiana non era una simulazione. Una stucchevole tendenza esterofila senza sostanza, bensì la presa di consapevolezza che il pubblico non fosse solo generalista. E non essendo generalista, avesse bisogno anche di un’autorialità coraggiosa, se non addirittura sovversiva. Un’autorialità affidata a concetti visionari e ad alcuni dei principali talenti recitativi delle rispettive generazioni. Tuttavia, non tutti i fenomeni nascono dall’alto: quando la storia bussa alle porte ma non c’è nessuno dall’altra parte, pronto ad aprire, si muove qualcosa nell’aria. Una folata di vento invisibile, nella forma del pubblico che spinse la serie attraverso i – pochi – mezzi a disposizione.
I Millenial erano pronti già pronti a Boris, ma si è capito solo dopo anni

Succede allora che Boris sia diventata un cult grazie al passaparola. I numeri su Fox non erano granché, sulla Rai era un corpo estraneo – capace, tuttavia, di contribuire alla sua crescita globale – ma Boris è cresciuta negli anni. Nell’arco di un decennio, soprattutto dopo aver concluso il suo primo ciclo con tre stagioni e un film. Il fandom si è strutturato silenziosamente negli angoli più reconditi del web, e i Millennial si allineavano alla nuova era televisiva prima ancora che le tv nazionali ne sapessero cogliere gli impulsi.
Si arriva così alla pandemia, a oltre dieci anni dalla prima messa in onda, e alla terza vita di Boris, riesplosa grazie a Netflix e alle trasmissioni in streaming nei giorni in cui il mondo intero era stato costretto a chiudersi in casa per mesi interi. Una nuova vita e poi l’idea, sempre più vivida: ma perché non tirare fuori addirittura una quarta stagione? Sì, a quel punto i pianeti si erano allineati: la storia di Fox in Italia era ormai alle spalle, ma in compenso intervenne un’altra istituzione, stavolta più generalista, a dare una nuova vita a Boris. Stiamo parlando, ovviamente, della Disney.
E allora, cosa ci insegna tutto ciò? Ci insegna che uno come Mattia Torre nasca una volta ogni cent’anni e che Boris fosse arrivata troppo presto. Senza sapere di essere arrivata al momento giusto, come solo il tempo avrebbe dimostrato. Succede che per una volta siano stati gli americani a venirci dietro, anche se non si possa certo affermare che l’abbiano fatto consapevolmente: quel che è certo è che la “loro Boris” sia nata solo nel 2025, grazie a The Studio.
Succede, soprattutto, che non tutte le storie fallite in partenza siano destinate davvero all’oblio.
Boris ha conquistato il suo posto nella storia con audacia e con la volontà inscalfibile di essere se stessa, al di là delle logiche commerciali imperanti. E sì: anche con un bel po’ di fortuna, quella che interviene ogni tanto in sostegno delle menti più coraggiose. Il flusso degli eventi ha così riscritto le sue priorità, portandoci a oggi. Sono passati diciott’anni: l’Italia del calcio aveva appena vinto il suo quarto Mondiale e ha poi vissuto uno psicodramma sportivo per il quale non osiamo immaginare la reazione di Renè. La tv è diventata altro: la golden age americana è alle spalle, mentre quella italiana si sta affacciando solo ora con prodotti visionari che hanno dato continuità all’esempio editoriale di Romanzo Criminale nelle forme più disparate.
Dell’erede di Boris, però, non si intravede ancora l’ombra: l’impressione è che la serialità italiana stia dando un nuovo impulso anche alle comedy dopo anni di stagnazione, ma è ancora presto per associare gli esempi fortunati e parlare di una vera e propria tendenza. L’unica vera erede di Boris è, ancora, la stessa Boris: dopo una quarta stagione dovrebbe arrivarne pure una quinta, anche se non manca la paura a riguardo. Siamo entrati nell’era delle IP, dei franchise e dei reboot, dei revival e della nostalgia che rischia di essere un ostacolo per la creatività.
Un peccato, ma anche un’opportunità per le poche scommesse che si fanno. Ogni volta che si sottovaluta l’approccio potenziale del grande pubblico, si rischia di rimanere sorpresi quando un prodotto ben fatto emerge dai meandri degli algoritmi – o dal ricco catalogo di Raiplay, ad esempio – per assumere la centralità che avrebbe meritato fin dalla sua presentazione.
Succede sempre più di frequente, e va bene così. Perché la serialità italiana può crescere grazie a talenti in attesa di un’opportunità: piccola o grande, sovversiva o anche solo innovativa.

Viviamo in tempi di spending review e non è sempre facile, ma l’auspicio è che la serialità italiana segua l’esempio di Boris come già ha fatto con quello di Romanzo Criminale. Ripetiamo: ci sono dei segnali positivi in tal senso, e a questo punto speriamo che la “musica” seguita da Ferretti nella quarta stagione di Boris possa essere seguita da tanti altri. Prima di tutto, dai network e dai produttori. E quando lo faranno, auspichiamo che possano crescere anche attraverso campagne capaci di sostenere il valore di ciò che si produce, anziché scoprirlo a posteriori. Perché quella di Boris è una storia fortunata, un’eccezione alla regola. E sarebbe bello se smettessimo di trattarla come tale. Confidando, così, in un futuro da scrivere attraverso nuovi codici.
Si può fare? Certamente: i budget sono sempre più limitati, ma c’è ancora margine d’azione. Si vuole fare? Per fortuna e purtroppo, la lezione di Lopez è sempre valida: per più di qualcuno, una tv diversa non è nemmeno auspicabile. Le fuoriserie, tuttavia, sono perfette per affrontare le strade più accidentate: quando le strade principali sono occupate, attraverso sentieri più appropriati. Se ce l’ha fatta Boris nelle peggiori condizioni possibili, potrà farcela anche il suo erede. Chiunque esso sia.
Antonio Casu